Nata a Milano nel 1966, dopo studi di filologia classica all'Università degli Studi di Pavia comincia a lavorare in libreria. Fa la libraia per 26 anni. Ha collaborato con case editrici quali Astoria, come lettrice dall'inglese e dal francese e per Giunti per cui ha scritto una guida on line sulle città europee. Ha collaborato con articoli e recensioni al blog SulRomanzo e al blog di approfondimento culturale Zona di Disagio. Suoi articoli sono apparsi sul sito della società di formazione Palestra della Scrittura. Ha curato blog di carattere economico e, per anni, ha lavorato come web content writer. E' autrice di due libri: Guida sentimentale alla Tuscia viterbese, una serie di brevi reportage di narrazione dei territori e Mors tua vita mea, un libro di racconti pubblicato da I Quaderni del Bardo Edizioni. Un suo racconto è pubblicato all'interno del libro Milanesi per sempre, Edizioni della Sera. Dirige la rivista L'Ottavo

In un suo pezzo, pubblicato su Lottavo.it lo scorso otto marzo, Demetrio Paolin, riflettendo sul libro Malacarne di Annacarla Valeriano, scrive: “La privazione della libertà, dell’esistenza, parte dalla lenta e continua distruzione del corpo, perché niente è più scandalosamente politico che un corpo, niente più del semplice esistere del corpo produce in un regime totalitario una reazione violenta. Essere corpo significa rivendicare la propria singolarità e questo è forse il più grave degli atti di ribellione: affermare la propria esistenza biologica e fisiologica.” In queste parole, scritte due anni dopo l’uscita del suo Conforme alla gloria, ho ravvisato una delle possibili chiavi di lettura di questo libro. E con questa bussola ci si addentra in pagine densissime in cui la parola pelle, ripetuta un numero elevatissimo di volte, fa da filo rosso, delineando quella che, a prima vista, può sembrare un’ossessione e invece è una riflessione con cui l’autore sta facendo i conti da molto tempo.

Non è un caso, credo, che la gestazione di questo testo sia stata lunghissima. Sei anni sono tanti. E se il loro srotolarsi appare, a tratti, velocissimo, per la scrittura di un testo indicano un lavorio tutt’altro che pacifico. Come pacifico non è questo libro. Per molti motivi. Paolin si addentra, su molti registri, nel difficile e impossibile universo dei lager nazisti, camminando con audacia ma rispetto, in un argomento che fa tremare le vene ai polsi. Perché l’immensità e l’indicibile, si è soliti considerarli legittimi solo se, a verbalizzarli, sono i testimoni diretti. Cosa poteva dunque aggiungere un libro di uno scrittore nato nel 1974? Molto. A partire dal concetto di responsabilità che chiunque maneggi le parole dovrebbe avere sempre ben presente nel momento in cui le cesella, le sceglie e le mette una dietro l’altra.

E in questo Conforme alla gloria, Paolin la responsabilità se l’è assunta tutta, per intero, senza sconti, non facendone neanche a chi lo legge. Un libro in cui tutto sembra legarsi a tutto, in cui le storie dei vari personaggi si fanno causa ed effetto, al contempo, della drammatica e inevitabile continuità tra un atto e un altro, tra un gesto e un altro, anche distanti nel tempo. Continuità che qui, in modo molto forte, si incarna, nel vero senso della parola, proprio nel corpo e nella pelle. Tutto inizia, almeno dal punto di vista drammaturgico, con Rudolf Wollmer, sindacalista di Amburgo che, in occasione della morte del padre, ex SS, ne eredita la casa insieme alla più devastante delle eredità: un quadro. Quadro che si scoprirà essere di pelle umana. La condanna, il giudizio universale per Rudolf comincerà proprio da lì. Come San Bartolomeo che, nella Cappella Sistina, si fa immagine della sua agonia: “[…] Bartolomeo è stato scuoiato vivo, è un martire della Chiesa e quindi nel Giorno del Giudizio viene rivestito come tutti di carne nuova, ma tiene tra le mani quella che gli fu tolta. Bartolomeo è stato privato della libertà, della parola, del pensiero, della vita e perfino della pelle, il segno distintivo di ognuno […]”

Poi c’è Enea, ex deportato di Mauthausen, tatuatore (mestiere che ha imparato proprio nel lager) e che dal lager non è mai uscito, portandosi dentro l’insostenibile pesantezza dell’esser vivo mentre i suoi compagni sono morti. E c’è Ana, giovane donna che diverrà l’inconsapevole espiazione di Enea che userà il copro della ragazza per tatuare sulla sua pelle gli stessi disegni che, nel campo di concentramento, fu costretto a dipingere sul corpo di una prigioniera. E, in mezzo e attorno alle loro vite, il mescolarsi irruente di ricordi, dolore, colpa, male. Tutto, sempre, con pelle e corpo come qualcosa di sacro, seppur non sacralizzato.
Demetrio Paolin è stato spesso interpellato e intervistato rispetto al suo essere cattolico. E qui, in questo testo, la questione non è di poco conto. Ma non nei termini di un’appartenenza monolitica ad una corrente o ad una poetica. Semmai nei termini dello scandalo, lo scandalo del corpo violato, lo scandalo di una parola che non viene per portare pace ma divisione. Ciascuno dei personaggi del libro porta una croce che non è consolatoria e che non porta nemmeno la certezza di una redenzione, semmai quella di una eredità che non è quella del sangue, non è quella genealogica. E Rudolf, Ana ed Enea faranno i conti proprio con questo. E in questo senso, con questa sfumatura qui, anche qui, Demetrio Paolin, è scrittore cattolico. Ma nel senso che Paolin stesso ha messo in luce in un suo bellissimo articolo apparso tempo fa sul Corriere della Sera: “ […]è necessario fare una premessa che ci liberi da una serie di pregiudizi che volentieri si accompagnano all’aggettivo cattolico. Il romanzo cattolico non è un romanzo dei buoni sentimenti, non propugna una moralità o un certo tipo di moralità. Non ha niente a che fare con le vite dei santi, con l’agiografia. Per semplificare, il romanzo cattolico non è un romanzo in cui i protagonisti sono dei preti, ma è un testo che mette in risalto una discrasia tra ciò che è e ciò che si desidera. […] conferma come il romanzo cattolico abbia una doppia e forte tensione; da una parte ad immaginare il mondo come sarà (la rivelazione finale) e dall’altra a fare i conti con il mondo com’è, partendo dalla propria carne. […] il copro diviene il luogo, si potrebbe usare la parola tempio, dove l’uomo fa esperienza del mondo.”

Non dunque, Conforme alla gloria, un libro da leggersi come un richiamo alla letteratura concentrazionaria, ma come un testo scandaloso proprio nel suo partire dal corpo e dalla pelle per dirci molto altro, sulla mercificazione, per esempio, che diviene inevitabile quando tutto si trasforma in una cosa. Come il corpo di Ana che sarà la performance di Enea, tatuata e appesa. Non più persona ma, appunto, “l’appesa”. Perché la testimonianza presuppone che si viva e si sia vissuto, sulla pelle, ciò di cui si dà testimonianza: “Per essere testimoni dobbiamo farci aguzzini.”
E c’è, in questo libro, insieme a Enea, Ana e Rudolf anche Primo Levi, scrittore di cui Demetrio Paolin è studioso da molti anni. Nome oltre che voce che vibra in tutte le pagine di questo libro. Nome appunto, come portatore di unicità, come la pelle, come la testimonianza e la colpa che ci si assume, come una sostanza che porta giù. Inevitabile, dunque, leggere Conforme alla gloria con un occhio e, con l’altro leggere I sommersi e i salvati e il suo carnale insistere su ciò da cui non si scappa: “Qui, come in altri fenomeni, ci troviamo davanti ad una paradossale analogia tra vittime e oppressore, e ci preme essere chiari: i due sono nella stessa trappola, ma è l’oppressore, e solo lui, che l’ha approntata e che l’ha fatta scattare, e se ne soffre, è giusto che ne soffra; ed è iniquo che ne soffra la vittima, come invece ne soffre, anche a distanza di decenni. […] Ancora una volta si deve constatare, con lutto, che l’offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (se pure lo travagliano, aiutate o no dalla punizione umana), ma perpetuano l’opera di questo negando la pace al tormentato.”

Non hanno pace, infatti, né Enea, né Rudolf e neanche Ana perché il quadro, quel quadro, è fatto di pelle. E la trappola è la peggiore che potesse essere preparata. Demetrio Paolin ha centrato il punto, il punto che duole perché è carne. In un bellissimo libro di Betti Marenko dal titolo Segni indelebili. Materia e desiderio del corpo tatuato edizioni Feltrinelli, leggiamo: “ È dalla pelle che occorre partire se vogliamo discutere di processi idnetitari, delle loro instabilità, mutevolezze e traiettorie. È alla pelle che occorre guardare per leggere le mappature di possibili ripensamenti, ridefinizioni, riscritture dell’identità.” Lo sapevano bene i nazisti. Come sapevano bene che, come scrive Francoise Sironi nel suo bellissimo Persecutori e vittime sempre Feltrinelli: “La tortura ruba la voce, imprigiona nello stesso silenzio vittime e carnefici.”

Per questo Conforme alla gloria è un libro necessario, proprio per la sua riflessione insistita su copro e pelle. Perché la testimonianza, in questo cattolica, ma non come ce l’ha rappresentata il catechismo, si fa carne. Con il suo scandalo che ha l’urgenza di restare tale. Il pericolo è la normalizzazione, la moda, il body marketing, di cui parla la stessa Marenko e di cui parla Enea in una intervista, riportata a conclusine del libro, in cui si fa riferimento all’abitudine che, in Israele, alcuni nipoti di deportati hanno di tatuarsi sul braccio il numero di matricola dei loro nonni: “Significa che il lager è stato addomesticato: i nazisti immaginavano un modno in cui il lager non avrebbe dato scandalo. Il nipote che si tatua la matricola del nonno sancisce così la loro vittoria postuma. Pensi a un mondo in cui alla fine diventerà di moda farsi tatuare il numero di matricola di Primo Levi. […] Quando tutti noi sopravvissuti saremo morti, nessuna opera di testimonianza servirà di fronte a questa normalizzazione.”
Ecco perché Conforme alla gloria è un libro fondamentale. Perché il corpo, la pelle, sono forse l’unico baluardo da difendere contro la banalità del male

Conforme alla gloria Book Cover Conforme alla gloria
Demetrio Paolin
Letteratura, memorie
Voland
2016
393