Marcel Hénaff, filosofo e antropologo francese, già autore de Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia e di Figure della violenza, è autore del saggio La città che viene, pubblicato in patria dieci anni fa, all’alba della crisi economica mondiale che le democrazie occidentali hanno in parte superato ma che stanno ora subendo, soprattutto, su un piano politico e istituzionale. L’editore Castelvecchi lo propone ora al lettore italiano nella traduzione dal francese di Mario Bertin. È un breve studio, denso e coinvolgente, sull’essenza della civiltà urbana. L’80% della popolazione dei paesi industrializzati, precisa il filosofo a mo’ di premessa, vive oggi nelle città. “Ci sono oggi più abitanti nelle città di quanti nel 1950 ce ne fossero sull’intero pianeta”. L’oggetto dell’indagine di Hénaff è il seguente: scoprire se fenomeni come l’espansione incontrollata delle megalopoli, l’inglobamento delle campagne, la perdita di identità architettonica, la rivoluzione delle reti informatiche e di comunicazione in generale, abbiano messo in crisi il concetto di città come totalità organica, oppure se, al contrario, dobbiamo abituarci a un modello ibrido che avvolge l’intero pianeta, un mondo entrato in una fase di urbanizzazione liquida e onnicomprensiva. In altre parole, c’è da capire se la città, smarrita la possibilità di un duraturo confronto dialettico o di un autentico rapporto dialogico con un esterno invariabile (la campagna, ma non solo), sia tutto oppure niente.
Il lavoro preliminare di Hénaff consiste nell’analizzare la città secondo tre categorie che, da quando l’uomo assunse la decisione, molti millenni fa, di coabitare in spazi delimitati e di abbandonare un’esistenza nomade, caratterizzano l’urbanesimo: monumento, macchina e rete. Per quanto riguarda la prima categoria, il filosofo francese afferma che “la città si costruisce e si organizza per essere se stessa un mondo… essa non è semplicemente un palazzo in cui risiede il principe con la sua corte, né un monastero dove vive un numero limitato di uomini e donne, né una fortezza dove vegliano dei soldati… essa è il luogo in cui vivono tutti i membri della comunità; essa assorbe e organizza in funzione di se stessa lo spazio che la circonda”. Punto di congiunzione, e di riunione, di terra e cielo, di uomini e divinità, la città “si presenta come un riassunto dell’universo”. Da qui, l’importanza assegnata ai rituali di fondazione, ai templi, alla verticalità di alcune costruzioni più significative di altre e allo stesso tempo alla cinta muraria che, individualizzando il contesto urbano, cinge all’interno gli abitanti, stabilendo la separazione di un dentro e di un fuori. Hénaff passa in rassegna le variazioni, pratiche e concettuali, apportate alla monumentalità cittadina nel corso dei secoli, dal principio ordinatore di cardo e decumanus per i romani alla vicinalità medioevale, dal prospettivismo rinascimentale alla razionalità matematica degli architetti del Settecento. “La città non è soltanto il luogo dei monumenti: è essa stessa il monumento per eccellenza. È l’opera che racchiude tutte le opere, quella che fa proprio il progetto e ne stabilisce il percorso, perché è in essa che, alla fine, si esprime e si rispecchia l’origine (archè) con il costruito (tekton)”. Microcosmo, compendium mundi, quindi, in cui convergono il sacro e il profano, il culto e il potere politico, il commercio e la santità.
La città, però, è anche macchina, da intendersi come “dispositivo sociale di organizzazione del lavoro”. È qui, su questo piano, che si realizza il distacco più evidente con la società agricola. “La città libera gli individui dalle prescrizioni legate all’età, alle parentele, alla differenza sessuale per considerarli e costituirli sotto il profilo della competenza tecnica e amministrativa… Nei grandi lavori, essa tratta gli individui come dei semplici prestatori d’opera da organizzare e da impiegare in compiti stabiliti… Molto presto la città realizza una concentrazione di persone considerate come pura forza lavoro”. Hénaff segue la lezione di Max Weber in merito all’emergere della cosiddetta ‘razionalità amministrativa’: la figura del funzionario pubblico si emancipa dalle logiche affiliative, parentali, di natura feudale o cooptative. Egli è un professionista che, a seguito, ad esempio, di procedura concorsuale, è immesso in una struttura gerarchica, ove detiene un sapere specializzato e parcellizzato, attinente alla competenze acquisite e soggetto a valutazione. “Questa necessità vale in ogni campo: giustizia, educazione, sanità, difesa, cultura, trasporti, industria, commercio, nettezza urbana, polizia. Ma è importante sottolineare che l’apparizione della burocrazia negli Stati centralizzati non è separabile dal carattere urbano della loro cultura”. Tuttavia, qualsiasi disamina dell’avanzata della città-macchina non può omettere l’importanza di un elemento paradossale: lo scambio (con esso il mercato) è indice di benessere, di crescita eppure, a lungo andare, è anche l’innesco di un processo involutivo. La Rivoluzione industriale è l’apice di tale dinamica. Le città sono offese dal proprio stesso sviluppo: unità e armonia, qualità essenziali dell’aspetto monumentale, vanno perdute. “Il problema sembra essere stato questo: la disgregazione della città classica è stata vissuta come se forze esterne si fossero introdotte nelle città, come se il trionfo della macchina fosse per natura sua del tutto estraneo all’universo urbano”. L’estensione delle periferie, alveari abitati dalla classe operaia, decentrati rispetto al cuore politico ed economico della città, ma in ogni caso ad esso collegati, coincide con il trionfo della standardizzazione delle forme e con il dogmatismo architettonico dello stile modernista di Le Corbusier, “che sembrava ignorare tutto della esperienza sociale e corporale della città”.
Infine, Hénaff analizza la terza categoria, la rete, un modello capillare, che sollecita “una diffusione molto più ampia tendente a produrre un arcipelago di luoghi urbani, spesso confortevoli, ma senza altro progetto che di assicurare i principali servizi in una giustapposizione di aree di abitazioni e di aree di uffici”. Alla rete si attribuiscono tratti inediti, come la multicentralità, l’interdipendenza degli elementi, l’apertura estensiva (la possibilità di espanderla in varie direzioni), la particolarizzazione (la costituzione di nicchie di relazioni all’interno dell’insieme considerato), l’accessibilità da qualsiasi punto, la mobilità dei flussi che essa supporta. La postmodernità produce luoghi alieni dalla precedente monumentalità urbana e introduce una nuova definizione di spazio pubblico. L’autore ravvisa lo schema-rete anche nelle civiltà testé esaminate, risalendo fino a quella mesopotamica. Non esiste città, apparsa nella storia umana, che non abbia trafficato con l’ambiente esterno, o avviato un circuito interno di scambi, adattando così se stessa ad una configurazione funzionale ai commerci, alla dislocazione ragionata delle risorse e alla divisione del lavoro.
“C’è un elemento della città che tende a trasgredire la differenziazione gerarchica: questo elemento è la strada… essa è un interstizio, uno spazio di transito, ma anche un luogo di incontro e, più ufficialmente, un luogo di mercato”. La strada spezza la monumentalità cittadina. In genere, non è un elemento centralizzabile o acquisibile in esclusiva da un potere, ma ha, piuttosto, la caratteristica di mischiare la popolazione e di fornire la via di accesso, potenzialmente, ad ogni angolo dell’urbe. La rete, inoltre, permette l’affermazione di “relazioni reversibili e multipolari”, antigerarchiche, all’origine di quella forma di relazionalità pubblica chiamata, in accezione politologica, società civile, un concetto che Hénaff fa defluire in quello, più ampio, di spazio comune. Tuttavia anche la rete, come la macchina, evolvendosi disintegra le prerogative esemplari della città. “La potenza delle reti è diventata così importante, la loro ubiquità così completa, che ormai nessun luogo di insediamento è, per principio, più privilegiato di un altro… I centri di produzione, di gestione, di decisione, in linea di massima, possono legarsi alla città o slegarsene”. Stemperata l’attitudine a condividere un agorà (o altri spazi comunitari), la socialità oggi pare declassata in aggregazioni effimere, convergenze temporanee e sfuggenti: il concerto, l’evento sportivo, la manifestazione politica.
La preoccupazione di Hénaff, messa in evidenza nella seconda parte del libro, è quella di saggiare la praticabilità del dibattito pubblico indipendentemente dai modelli di organizzazione delle città. Un bisogno urgente, questo, in un tempo storico contraddistinto dalla smaterializzazione della visibilità monumentale. Siamo in presenza della fine della pubblicità del potere a vantaggio di sfere di influenza impersonali e spesso non soggette a controllo democratico: finanza, mercati, centrali che regolano da un altrove flussi di uomini e di informazioni. “Oggi i mezzi di comunicazione e di trasporto rendono possibile la rescissione del legame che si era recato tra la città e la fabbrica. Le industrie ora si installano sempre più dove gli pare… Questi impianti determinano, a loro volta, gli sviluppi dell’habitat”. Le indagini di Hénaff presentano similitudini con gli studi del sociologo Aldo Bonomi sulla ‘città infinita’ di marca padana, ossia quell’intreccio ipermoderno di villette, centri commerciali, capannoni e industrie, un delirio estetico e urbanistico, che ha sconvolto le cartine geografiche e inquinato la nostra percezione del territorio. La città perde la sua antica funzione di megamacchina, poiché i dispositivi di organizzazione e di produzione migrano verso hub economicamente e logisticamente più vantaggiosi, dislocati da qualche parte, spesso in un non-luogo senza nome e senza storia. C’è di più: Hénaff rileva ulteriori segnali di crisi della civiltà urbana. In primis, assistiamo a processi di obsolescenza della centralità amministrativa delle capitali storiche degli Stati e dal sorgere, in loro vece, di anonime metropoli al puro scopo di concentrare, in un contesto di anomia sociale, tutte le funzioni di governo di una nazione (vedasi i casi di Brasile, Egitto, Birmania); in secondo luogo, verifichiamo, generazione dopo generazione, quanto l’architettura monumentale non tenga il passo delle trasformazioni politiche e non trovi risposte adeguate al consolidamento dei nuovi assetti di potere. Sono i grattacieli privati, monoliti “non più in proporzione con lo spazio umano” a rappresentare, e a trasmettere ai posteri, la monumentalità cittadina, mentre gli edifici pubblici tendono ad assomigliarsi e a confondersi nell’indistinto funzionale. “Questa evoluzione verso l’indifferenziazione”, scrive Hénaff, “appare con evidenza dalla scomparsa delle recinzioni murarie… La città ormai non ha più confini. Strettamente parlando la città è scomparsa”. Scomparsa. Ma le è rimasta un’altra opportunità?
L’autore richiama le teorizzazioni del filosofo Michel Serres sulla rappresentazione e sul virtuale. Occorre ricordare che lo spazio pubblico, indebolito dai nuovi paradigmi economici e tecnologici, non è mai stato fisico tout court, e, sebbene evochi “un modello formale di spazio”, di fatto funziona “unicamente sui sistemi di relazioni e di istituzioni”. Non è più il caso, secondo Hénaff, di insistere su un’universalità immaginata come una sfera omogenea, una configurazione centro/periferia ove il locale è, per definizione, mera contingenza in attesa di essere riscattata da una legge valida ovunque, bensì di privilegiare un modello policentrico, un pluriverso. In un’ottica di riforma del cosmopolitismo, “il globale non preesiste al locale, è l’insieme delle loro relazioni come può esserlo una rete… ogni luogo è in comunicazione reale e virtuale con l’insieme degli altri luoghi… ciascun punto locale implica la rete globale, reciprocamente, il globale non è nulla senza la molteplicità dei singoli siti”. Dentro questo quadro destrutturato, per Hénaff la città può tornare a svolgere un ruolo, imprescindibile, confidando su alcune prerogative essenziali che, tuttora, la rendono competitiva nella veste di ‘incubatore permanente’: stabilità (la città è un luogo che sorge su un territorio, un dato irriducibile a qualsivoglia ‘liquidità’ delle reti), densità (“fattore di prossimità delle aziende e delle relazioni rapide tra agenti”, “contesto scientifico e di cultura e di comunicazione che stimola la ricerca e l’innovazione”), comunità (la città esiste perché “ereditiera di una memoria e perché resta il terreno di lotte politiche e sociali”).
Hénaff dedica la sua attenzione al mondo comune, un insieme composito di pratiche interrelazionali, che si estende progressivamente, a cerchi concentrici. Dai legami di vicinato agli incontri, voluti o casuali, il cui palcoscenico sono strade e piazze di un quartiere, dall’associazionismo cittadino alle riunioni di categoria, per passare poi all’ordine vernacolare (il modo di esprimersi tipico di un luogo), fino allo stile e all’atmosfera, ovvero lo stare-insieme inimitabile di una comunità: tutto ciò qualifica le dinamiche culturali, politiche e religiose di un territorio via via più ampio. È soprattutto la strada a costituire la “ragione del fenomeno urbano” e pertanto deve essere compresa e difesa nel suo intimo statuto. Grazie ad essa la città “si è inventata distaccandosi dai modi di vita anteriori, essenzialmente propri del villaggio”, in virtù di quattro aspetti, o attribuzioni, non rilevate altrove: vicinalità, civiltà, visibilità e diversità. Nella strada ci si incontra tutti, a prescindere da età, professione, appartenenze etno-culturali o credenze, nella strada ci si frequenta al di là delle proprie intenzioni, nella strada ognuno costruisce il proprio itinerario, che può non rispondere al principio dell’utile o di una programmazione ragionata. In essa e nelle piazze, si cammina per piacere, in una nuvola di felice disinteresse e, inoltre, si sperimenta l’imprevisto, si affinano le buone maniere. “Non è né uno spazio privato da difendere contro gli intrusi, né uno spazio pubblico regolato da protocolli troppo rigidi… ci appartiene in quanto umanità al plurale”.
Luogo di vita partecipata, la città per Marcel Hénaff custodisce un seme di fierezza, lo stare-insieme degli uomini e delle donne, anche in un’epoca di connessioni virtuali. “Mai un’immagine sintetica abolirà un corpo di carne”. Laboratorio politico, dunque, dentro il quale si agita la scommessa della convivenza ed è verificata, nei comportamenti, nelle scelte, la possibilità di un’abitabilità, reale e simbolica, dello spazio pubblico del XXI secolo.
Scienze sociali, antropologia
Castelvecchi
2018
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