Se la maggior parte delle persone quando si parla di letteratura ungherese pronuncia, quasi all’unisono, il nome di Magda Szabò, è solo perché la pur immensa scrittrice magiara ha avuto dalla sua un destino editoriale che, grazie a Einaudi, le ha garantito una maggiore visibilità. Speriamo che ora, grazie a Bompiani, la stessa sorte spetti a Laszlò Krasznahorkai e a questo suo meraviglioso Melancolia della resistenza. Romanzo per altro non inedito in Italia grazie all’editore Zandonai che, nel 2013, lo pubblicò nella traduzione di Mészàros e Ventavoli (mantenuta anche nella presente edizione). Purtroppo Zandonai non ha avuto molta fortuna e il suo fallimento ha trascinato un po’ nell’oblio questo importantissimo testo.
Gli appassionati di cinema ricorderanno che dietro il quasi impronunciabile nome di Krasznahorkai si “nasconde” lo sceneggiatore del meraviglioso Le armonie di Werckmeister, film tratto proprio da questo libro e che, dal titolo, rimanda all’omonimo musicista tedesco a cui si deve quella definizione riferita ad una tipologia di accordatura. Tema non certo secondario in un libro in cui uno dei protagonisti principali è proprio un musicista.
Il libro prende le mosse, fin dalle prime pagine, con uno stile travolgente che costringe quasi ad una corsa senza fiato, tra frasi lunghissime e pensieri inarrestabili e senza quasi punteggiatura. Un treno sta riportando a casa la signora Pflaum che, dopo una visita alla sorella, sta tornando nel suo paesino nei Carpazi. Il viaggio, tanto cupo quanto claustrofobico, che per la signora Pflaum si trasforma in un vero e proprio incubo, già ci fa capire che qualcosa di inquietante sta avvenendo. Infatti, al suo arrivo, ci troviamo catapultati in una cittadina avvolta dal silenzio e sprofondata nella più cupa desolazione. In un crescendo di surreale disfacimento scopriamo che, tra i motivi della grigia e tesa atmosfera che regna in città, vi è l’arrivo di un circo e della sua unica attrazione: una gigantesca balena morta. Un circo e un animale morto che diventano quasi la metafora di un mondo alla fine: “Un circo? E perché mai? Proprio qui, dove nessuno sa se il mondo domani continuerà a esistere”? Si chiede la signora Pflaum
In questa cornice narrativa, tra le cui pieghe soffia un po’ di Dostoevskij e non poco Gogol, l’autore intesse un racconto in cui, di volta in volta, l’obiettivo si sposta sui vari personaggi a cui viene, in un certo senso, dato il compito di farsi voce narrante e punto di vista. E tutto attorno un inarrestabile disfacimento che non è, ovviamente, solo fisico. Qui è tutta una società che sta cadendo a pezzi. Non dimentichiamo che l’edizione originale del libro uscì nel 1989 e non poteva non risentire di tutto il conflitto che stava prendendo forma e carne tra la fine di un regime e la nascita di qualcosa di nuovo che non ha certo mantenuto le aspettative di libertà e dignità che ci si aspettava. E questo meraviglioso La melancolia della resistenza è proprio il racconto apocalittico di un imbarbarimento, di un abbruttimento, di una popolazione che dimentica totalmente non solo ogni scampolo di umanità ma l’intero senso delle cose.
Tranne due meravigliosi e per certi aspetti commoventi personaggi; lo stralunato, ingenuo e sognatore Valuska e il vecchio musicista Eszeter. Il primo considerato un po’ lo scemo del villaggio per la sua passione e fede nel sistema solare, il secondo tanto melanconicamente lucido da avere deciso, o forse dal non aver potuto fare altro che vivere ritirato dal mondo. Queste due anime si incontreranno e si faranno portatori di una loro forma di resistenza, così diversa l’una dall’altra eppure così intrinsecamente legate. Se Valuska riesce a vedere la volta celeste anche sotto una cappa grigia e densa come il male, Eszeter sa che quella ingenua forma di speranza e di fede è destinata a scontrarsi con una verità amara: “[…] non siamo altro che miseri soggetti di un insignificante fallimento in questo affascinante creato.” Eppure il vecchio musicista sa anche molto bene che un uomo come Valuska è uno squarcio, seppure destinato a fallire, in tutto quel cadere a pezzi di ogni cosa: “[…] aveva capito che il vagabondo, apparentemente svitato, prigioniero di quella galassia trasparente, testimoniava con la sua purezza e la sua toccante generosità umana l’esistenza di una presenza angelica tra le forze distruttrici della decadenza.”
Un libro da cui traboccano simbolismi e allegorie, con personaggi che fanno da archetipi di ciò che accade quando si pensa di essere sul confine tra rivoluzione possibile e restaurazione conseguente. Ecco allora la donna assetata di potere, il poliziotto ubriacone, l’esercito e i membri del consiglio cittadino che non faranno altro che perpetuare l’eterna spartizione di poteri e vigliaccheria, sopraffazione, ipocrisia e violenza. In un mondo congelato dal freddo in cui anche l’immondizia diventa l’immagine dei rifiuti di una società che si autodistrugge e che si illude di fare poi piazza pulita.
E il circo a fare quasi da cavallo di Troia in una società già putrefatta, in cui la credenza in qualcosa di misterioso prende il posto della fede, non necessariamente quella in Dio, semmai la fede nell’uomo. Da qui il perenne senso di pericolo, di paura, di qualcosa da cui difendersi e da chiudere fuori. La razionalità non ha più spazio in tutto ciò. Il potere, qualunque potere, ha bisogno di una paura che tutto mortifica. “[…] perché tutte le idee dominanti, le fissazioni, i giudizi che pretendono di chiudere il mondo entro confini che loro hanno deciso, distruggono la vita, l’inqualificabile bellezza del meccanismo delle relazioni reali.”
Il libro si chiude, quasi in modo circolare, sulla stessa signora Pflaum, in una atmosfera degna delle più drammatiche pagine de La madre di Gorkij, svelando definitivamente l’impossibilità che un cambiamento avvenga davvero. Un testo che, come al solito, qualcuno ha definito distopico ma che, in realtà, è il romanzo più politico di uno scrittore che si è assunto la responsabilità di narrare un’epica del nulla e del non senso
Narrativa straniera
Bompiani
2018
345