Nel 1998, alla vigilia dei mondiali di Francia, lo scrittore catalano Manuel Vázquez Montalbán non aveva dubbi. La crisi delle ideologie, l’avanzare impetuoso della secolarizzazione e il ridimensionamento della militanza politica avevano lasciato spazio alla «sola grande religione praticabile»: il calcio. Nulla di nuovo, per la verità. Prima dell’autore di Futbol. Una religión en busca de un dios, ci aveva già pensato un intellettuale di casa nostra a vestire il pallone con il suo abito più nobile. Per Pasolini, infatti, il calcio era «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», pur con i suoi immancabili momenti di evasione a uso dei profani. E poco importa se – come scriveva Eduardo Galeano nel suo gustosissimo Splendori e miserie del gioco del calcio (1997) – la sua storia oggi appare sempre più come «un triste viaggio dal piacere al dovere» (si intravede qui un riferimento non troppo velato ai grandi cambiamenti che questo sport ha subìto dopo la sentenza Bosman e a seguito del trionfo del capitalismo, che ne ha fatto un’industria globale). Ciò che conta – canta la sua penna loquace di uruguagio – è elemosinare con raffinatezza una buona giocata girovagando per gli stadi con un cappello in mano. «E quando il buon calcio si manifesta, rendo grazie per il miracolo e non mi importa un fico secco di quale sia il club che me lo offre».
Ma se il calcio, specie nei Paesi latini, è a tutti gli effetti una religione laica con una sua liturgia, uno spazio sacro e – perché no – un dio al quale affidarsi nei momenti più bui, non è da trascurare nemmeno l’importanza del pallone come oggetto di studio “terreno”. A cominciare dagli stadi, «templi moderni di un culto pagano» (come spiegato nel bel volume di Pierluigi Allotti Andare per stadi, edito dal Mulino) che ridisegnano una geografia di luoghi e passioni che, letta con attenzione, può fornire in modo efficace il ritratto di un Paese. A maggior ragione quando è in gioco il concetto di comunità, che nel calcio degli sceicchi e dei soldi a profusione resta, nonostante tutto, un valore ancora importante. Soprattutto nell’Italia delle cento città e degli infiniti campanili che si fronteggiano a suon di monumenti e battaglie, ma anche di squadre e striscioni.
Lo dimostra un bellissimo saggio di Tim Parks, che, a distanza di anni, continua ad essere una pietra miliare per gli amanti del pallone e non solo. Questa pazza fede. L’Italia raccontata attraverso il calcio (che Bompiani ha riproposto nel 2014 dopo la prima edizione pubblicata da Einaudi nel 2002) è il resoconto a mo’ di diario di uno scrittore britannico tifoso del Manchester United e innamorato di Verona (dove si era stabilito all’inizio degli anni Ottanta), che sceglie di abbracciare i colori gialloblù dell’Hellas per parlare degli italiani, dipingendone con coerenza pregi e difetti dentro e fuori dal rettangolo verde. «Rimasi subito colpito dalla completa trasformazione che subivano i veronesi entrando al Bentegodi (lo stadio dell’Hellas Verona e del Chievo, ndr). Di norma è gente pia, corretta, riservata. Allo stadio i tifosi erano sboccati, eccitati e divertenti – annota Parks con la curiosità di chi ha fame ma sa gustare le portate – (…) Con il passare del tempo la Curva sud è diventata l’unico luogo di Verona a cui sentivo di appartenere (…) La curva è l’antitesi dell’individualismo».
Lo scudetto dell’85, primo e ultimo della storia veronese, è la miccia che dà il là al viaggio letterario dell’autore, che prima di sistematizzarlo lascia fermentare con calma le sue impressioni: in curva ciò che conta è far parte di un gruppo, non il blasone del club; ogni domenica, durante la partita, il tifo sugli spalti è il contorno ideale di un rito simile alla festa del Carnevale, durante la quale è consuetudine rovesciare i ruoli. «Una delle cose che ho amato di più dei miei anni al Bentegodi è aver conosciuto decine di persone per nome, aver riso e urlato con loro, magari aver bevuto qualcosa insieme dopo, per poi non vederli più per il resto della settimana e non arrivare mai a conoscere i loro cognomi».
Nella stagione 2000-2001 Parks decide di seguire l’Hellas non solo al Bentegodi, ma anche in trasferta. Ed è allora che il libro prende davvero forma attraverso alcuni schizzi narrativi deliziosi che mescolano costantemente serio e faceto, riflessioni raffinatissime e chiacchiere da bar, allegria e ferocia. L’Italia sfila lentamente, da Milano a Catania, tenacemente abbarbicata ai suoi personaggi pittoreschi e agli stendardi culturali che ogni luogo ama esibire per rimarcare la propria diversità: «Gli italiani non smetteranno mai di insistere sulle differenze tra Nord e Sud. Se non ce ne fossero come farebbero a lamentarsi incessantemente gli uni con gli altri?», annota lo scrittore durante la trasferta del Verona a Catania, che racconta una contrapposizione durissima di linguaggi, prima che di casacche.
Ma la cronaca della partita e, di riflesso, della stagione del Verona di quell’anno, che acciuffò la salvezza per il rotto della cuffia dopo lo spareggio con la Reggina, è solo uno degli aspetti della storia ritmata di Parks, che è abilissimo nel tracciare non solo un formidabile quadro del mondo del calcio ma anche uno spaccato sociale e politico dell’Italia di allora e delle sue forzature, molte delle quali (r)esistono nonostante i cambiamenti radicali degli ultimi anni. «È impossibile tenere separati calcio e politica in Italia», sospira con la penna lo scrittore nel 2002 con l’onestà che lo contraddistingue e senza correre il rischio di essere smentito in futuro.
Il suo in fondo è un resoconto appassionato – ma ragionato – di ghirigori, canti, pregiudizi e personaggi che si scompongono e ricompongono fino a sublimarsi in una liturgia religiosa che si divide tra poesia e violenza per poi abbandonarsi al privilegio di «riveder le stelle».
Saggistica, calcio
Bompiani
2014
432