L’ultimo libro di Danilo Soscia è Atlante delle meraviglie, pubblicato da Minimum fax e ora finalista al Premio Chiara.
Sessanta piccoli racconti mondo
Danilo Soscia
C’era una volta la Wunderkammer, la camera dei prodigi: collezione di oggetti rari e squisiti, meraviglie della tecnica, orrori sublimi della natura e della storia.
Danilo Soscia riprende questo immaginario e raccoglie sessanta parabole esemplari, memorie infedeli, miti e fantasmi, inventando una sulfurea e personalissima Spoon River e narrando con uno stile potente e originale le inquietudini e le ossessioni che da sempre attanagliano il cuore e la mente degli uomini. L’Atlante è dunque molti libri insieme: può essere letto dall’inizio alla fine come un catalogo fantastico delle passione e delle avventure umane, oppure può essere percorso seguendo a piacere la fitta trama di temi e luoghi che lo sottende.
Di racconto in racconto, incontriamo uomini non illustri accanto ad Arthur Rimbaud, Gesù, Mao, Antigone, San Francesco, Jurij Gagarin e Friedrich Nietzsche, e ogni personaggio, oscuro o eminente, ci chiede di partecipare al destino e ci trae con forza irresistibile dentro il suo mondo. La Berlino di Bertolt Brecht e quella del panda Bao Bao si collegano alla Parigi di Walter Benjamin, e il viaggio della nave di Odisseo all’isola di Circe prosegue nell’avventura di una cagnetta selvatica, in orbita intorno alla Terra a bordo di un’angusta navicella spaziale.
Una scrittura animata da un’impetuosa forza creativa e visionaria, nella tradizione di Manganelli, Mari e Borges. (Dal sito di Minimum fax)
Quello che segue è un racconto inedito che Danilo Soscia ha scritto durante il Salone Internazionale del Libro e pubblicato su The Catcher, magazine della Scuola Holden.
Gautama aveva un milione di denti, di Danilo Soscia
“Era stato nostro padre a donarci il primo tassello dell’impresa. Ogni sera ci raccontava l’imponenza delle esequie di Siddhartha”
(illustrazione di Giovanni Gastaldi)
Leggenda vuole che Frankenstein venisse concepito in una villa svizzera, due anni prima della pubblicazione effettiva, durante una notte in cui George Byron, John Polidori, Percy Bysshe Shelley e Mary Wollstonecraft si sfidarono a raccontarsi storie di fantasmi. E se avvenisse oggi? È avvenuto. Durante il Salone Internazionale del Libro, alla Casa del Pingone, quattro giovani scrittori (Danilo Soscia, Veronica Raimo, Sacha Naspini e Vincenzo Latronico) hanno ripetuto la stessa sfida.
A cold coming we had of it,
Just the worst time of the year
For a journey, and such a long journey:
The ways deep and the weather sharp,
The very dead of winter.
T. S. Eliot, Journey of the Magi
Fu un freddo avvento per noi. Il tempo peggiore dell’anno per un viaggio, per un lungo viaggio. La via fangosa, e la stagione rigida, nel cuore dell’inverno.
Di notte le fiaccole delle guide montane oscillavano per noi nel buio innevato, ed erano la nostra avanguardia nel circuito di un candido deserto. Di giorno la miseria e l’assillo del possesso chiedevano il loro tributo a ogni angolo. Il fiato di un rognoso, il raglio di una vecchia sul crinale, un bastardo che chiedeva l’elemosina a un canto di strada. Fuori di casa, la carità è una maledizione dolce, e il suo profumo eccita un poco le scimmie carnivore. Dovevamo porre grande cautela a mostrarci per quello che eravamo, a donare un lembo di lana a un uomo nudo o un abbocco di semi a uno affamato. Altri sarebbero venuti a domandarci di quella nostra ricchezza e ci avrebbero trucidato per rapinarla.
Non conoscevamo via d’uscita al viaggio. Il mondo ci aveva fagocitato, grani annodati ai suoi fili. Non potevamo far altro che tagliare, recidere l’erba selvaggia che ci cresceva alle caviglie e scippava le piante dei piedi, rallentandoci. Io e Zhiming partimmo che eravamo bambini, e in anni di peregrinazioni tra la valle impestata dell’Indo e la terra ocra di Cina non consultammo mai le stelle per orientarci. Il nostro passo procedeva sicuro verso l’una o l’altra direzione.
Al di là dell’orizzonte pulsava fortissimo il cuore di ciò che cercavamo. Quel battito ci chiamava a sé, conosceva i nostri nomi, e la nostra generazione.
Ed ecco, noi che eravamo stranieri in ogni luogo, eravamo additati a vista. Lambivamo le costole di una fortificazione o la seta grezza di un accampamento, e gli abitanti spalancavano l’ingresso dei loro ripari. Il secolo ci aveva imbastito addosso l’ombra della verità, il suo riflesso buio.
Durante una sosta venne a salutarci un mercante, un orbo dall’arcata inferiore senza denti. Conduceva un dono per ringraziarci del nostro passaggio. Perle nere, farina, pelle. In estasi, da un astuccio di legno di ginko ci mostrò un osso ricurvo come la punta di un uncino. È quel che resta della mascella di Gautama, disse con un accenno di dolore. Ci porse la custodia, ma noi la respingemmo. È falsa, dissi io, e lo congedai.
Era stato nostro padre a donarci il primo tassello dell’impresa. Ogni sera ci raccontava l’imponenza delle esequie di Siddhartha, le fiamme che consumano il corpo, la cenere che si fredda, i resti delle ossa e delle bende che vengono trafugati e condotti da mille mani nelle arterie più infime delle città. Poi l’affidamento di una scheggia di tibia, e l’augurio commosso che fossero i suoi due figli a ricomporre brano a brano quelle spoglie perdute.
Ci condannò in questo modo, con la benevolenza di un odioso desiderio, con un sogno impossibile. Noi, fino alla morte, esecutori del suo volere.
L’ostensione di un frammento presunto ci riconduceva sempre allo strazio dei primi abbagli. Capitava di accettare per il nostro corredo un detrito di cui io e Zhiming eravamo certi e che poi si rivelava un raggiro. In una baia dall’estate eterna, un pescatore di datteri ci aveva sottoposto la falange di un dito indice. Era identica nella forma, nelle minime venature a un’altra che avevamo accolto il giorno prima, allietati per aver ricomposto finalmente l’intera mano destra.
Le prime missioni erano condotte nell’incomprensibilità del fine. Perché nostro padre aveva prescritto che le briciole arse fossero ricostruite in un unico corpo? Portavamo a turno sulla schiena la cassa in cui raccoglievamo le prime testimonianze, e formulavamo ipotesi. La neve si ammansiva al tocco degli zoccoli dei cavalli, un fetore di prugna macerata nell’alcool mi uccideva, e Zhiming disse, E se una volta ristabilito il corpo del Maestro, egli tornasse di nuovo in vita? E la domanda con il tempo diventò un comodo rifugio, una certezza.
A volte il sospetto che ci rivolgevamo era quello di precipitare nell’arbitrio, nella compulsione amorevole per questo o per quell’altro uomo. In fondo cosa ne sapevamo noi di ossa? Avevamo appreso lungo la strada le scarse conoscenze cui ci ispiravamo per ricollocare nell’idea di un braccio o di una gamba questa o quella particella. L’autorevolezza è sposa della menzogna. A chi dovevamo dare il premio di una vita? A chi dovevamo riconoscere lo statuto di custode del corpo santo di Gautama, consapevoli che lo avremmo innalzato a sovrano della sua miseria, oppure che ne avremmo aumentato a dismisura il potere con un titolo che era il più desiderato dall’oscurità senziente di ogni uomo?
Eravamo così malvagi da associare la bontà di un reperto alla giustizia che ci ispirava il suo conduttore?
Respingemmo nell’abisso dei falsi i denti fossili chiusi nel pugno di un ladro che diceva di averli sottratti con l’inganno ai servi di un Raja. Lo facemmo perché condannavamo in cuor nostro la morale che quell’uomo aveva scelto per sfamarsi? O perché il mondo si era riempito dei denti simulati del Maestro? Se la carità è una condanna, definitiva e colma di rimorso, l’inganno è un balsamo che può trasformare la vita da intollerabile travaglio a miracolo.
Oltre la cortina velenosa dello sguardo altrui, nella carne viva della nostra fama, c’erano solo due ragazzi. E così, ogni volta, prima del giudizio che eravamo chiamati a pronunciare al cospetto di un pezzo di Siddhartha, una mano invisibile ci serrava la gola, togliendoci il fiato. I nervi impazzivano, e si spalancava davanti agli occhi l’orrore del nostro stesso raggiro. Erano proprio gli occhi, le pupille svuotate, le palpebre mozze, l’oggetto misterioso che affollava di sé il nostro passaggio. Io e Zhiming ne vedevamo fiorire ovunque. Occhi sulle mani dei mendici, occhi sui capezzoli delle puerpere, occhi al vertice del ventre rigonfio di un morto di fame. Occhi che vigilavano in cielo, enormi e puntuali, il passo mio e di Zhiming. Occhi che morivano al tramonto, e che pure continuavano a rifletterci.
Il tempo si consumava e la concitazione di dover dimostrare ciò che non eravamo, di dovere essere gli arbitri che forse non saremmo mai stati, ci avrebbe ucciso, presto.
E se il soggetto della nostra devozione non fosse tornato tra noi? Il baule di ceramica sulla nostra schiena era ormai come una casa in miniatura dove lentamente si ricomponeva un sospetto, il barlume fuso di un uomo che era stato.
Una bambina ci portò in dono un pezzo di specchio. Lo consegnò a Zhiming, che si sbirciò in quella opalescenza liscia e si riconobbe, sorridendo. Mio fratello lo passò poi a me, e quando mi affacciai vidi me stesso, o almeno colui che io credevo fosse me. Gli occhi circolari e senza luce, tra le labbra sottilissime una dentatura di pesce predatore, e un ghigno, il sorriso compiaciuto di chi ha divorato a sangue un suo simile e vuole nasconderlo e confessarlo insieme. Feci un salto indietro, lo specchio cadde e divenne costellazione di un numero alterato di mostri che mi parve un esercito.
Alla fine di quell’inverno, la neve si sciolse con la rapidità di un incubo. Fu proprio un dente l’ultima luce della nostra costellazione, e le spoglie di Gautama furono complete.
Zhiming cadde in ginocchio e sentenziò, Siamo arrivati, Yunjiang. Siamo alla fine. Tornammo in quella che era stata la casa di nostro padre e lì scavammo la stanza in cui avremmo deposto il nostro Maestro di cenere. Sigillata la sepoltura, restammo in attesa che le ossa diventassero di nuovo vita semovente.
Un giorno vedemmo comparire sulla soglia di casa nostra un nano dalla testa di bambino. Conduceva un cavallo della sua disgraziata misura sulla cui groppa era stato fissato con delle funi un barile. Siete voi i due monaci che cercano i resti di Siddhartha Gautama? Era la prima volta che qualcuno non ci riconosceva. Annuimmo entrambi. L’uomo slegò il bagaglio dalla groppa del ronzino e lo rotolò fino alla soglia di casa. Lo rimise in piedi, divelse il tappo di paglia compressa, e con un calcio ne rovesciò il contenuto. Un’onda di pietruzze nere allagò i nostri piedi. Mi chinai e ne raccolsi una manciata. Avevano misura discontinua e alcune al tocco si riducevano in pulviscolo, come fanno i carboni quando sono molto freddi. Nessun dubbio poteva salvarci da una stellare certezza. Erano denti.
Sono appartenuti tutti al Maestro, disse, e la sua voce era storpia, grave.
Cercai il consenso affranto del mio gemello, ma vidi Zhiming con il volto tra le mani. A quel punto della vita entrambi assomigliavamo molto al ricordo di nostro padre.
Gautama aveva avuto in bocca un milione di denti. Questa era la verità.