La vita è un pallone rotondo è il titolo di un bellissimo libro di Vladmir Dimitrijević. «Il calcio – annota lo scrittore serbo – è il re dei giochi perché, come la danza, riporta il nostro corpo a quel che si potrebbe definire la preistoria dei nostri movimenti». La palla è rotonda è invece un famoso detto popolare che di questo sport è diventato il motto più rappresentativo. Il calcio infatti contempla una buona dose di imprevedibilità: non sempre vince il più forte, di scontato non c’è (quasi) nulla. E tutto improvvisamente può cambiare.
A volte è una questione di centimetri. Durante la sfida del ’74 tra Italia e Argentina, se la palla calciata «con precisione chirurgica» da Sandro Mazzola fosse entrata, probabilmente la storia di quella Nazionale e di quel Mondiale, organizzato in Germania Ovest e vinto dai tedeschi, sarebbe stata diversa. E invece no. Il pallone uscì di un niente. «Forse un ciuffo d’erba, o una zolla sistemata male. Non lo sapremo mai». In altri casi ci si mette il destino a scombinare i piani. Accadde, per esempio, durante il campionato del Mondo del ‘58 disputato in Svezia. L’estroso Garrincha, funambolo brasiliano di classe sopraffina (segni particolari: una gamba più corta dell’altra e un bacino ballerino) avrebbe dovuto sfidare il campione sovietico Eduard Strel’cov, giovane promessa della Torpedo Mosca. Ma quel duello tra fuoriclasse, in programma il 15 giugno a Göteborg, non avrebbe mai avuto luogo. A pochi giorni dall’inizio delle ostilità, Strel’cov, che non era visto di buon occhio dal partito comunista, venne infatti accusato di stupro, con conseguente squalifica a vita. E anziché per la Svezia partì per la Siberia: destinazione gulag. Per la cronaca, quel Mondiale l’avrebbe vinto il Brasile spazzando via i pur temibili padroni di casa con un umiliante 5-2 impreziosito da due autentiche gemme di un giovanissimo talento di 17 anni destinato all’Olimpo degli dèi. Il suo nome era Edson Arantes do Nascimento, meglio noto come Pelé.
Garrincha e Strel’cov: due campioni uniti dall’amore per il calcio, ma divisi dalle circostanze. La loro vicenda è solo una delle tante tessere che Stefano Bizzotto – giornalista sportivo e telecronista Rai – ha deciso di utilizzare per allestire la sua succosa biografia dei campionati del Mondo. Ma attenzione: Giro del Mondo in una coppa – Partite dimenticate, momenti indimenticabili dell’avventura mondiale (edito da il Saggiatore) non è la solita rassegna di eroi che si limita a scrivere la storia dal punto di vista dei vincitori. Sotto la patina degli almanacchi e dei trionfi da copertina esiste infatti un immenso sottobosco di «appuntamenti mancati con il destino», piccole grandi tragedie, incredibili intuizioni nate nei momenti più impensabili.
È un semaforo londinese a suggerire all’arbitro britannico Ken Aston l’idea di utilizzare alcuni cartellini colorati per sanzionare i comportamenti più gravi in campo. Correva l’anno 1966 (per intenderci, quello che noi italiani ricordiamo per la sentenza amarissima infertaci dal coreano Pak Doo-Ik). «Giallo, fai attenzione. Rosso, sei fuori», scrive Bizzotto esibendo lo stesso stile asciutto che caratterizza le sue telecronache: mai una parola fuori posto, bando agli inutili fronzoli delle penne d’oca. Il racconto scorre che è un piacere, e il merito principale dell’autore sta nell’averlo strutturato in modo efficace privilegiando il piacere della narrativa ai dettami della cronaca: ogni edizione della coppa del Mondo (ventuno, se si considera quella russa ancora in corso, la cui storia è però tutta da scrivere) ruota intorno a un aneddoto specifico e a una manciata di episodi che, assemblati con la giusta dose di maestria, regalano al lettore l’emozione di un film ben riuscito che parte dal lontanissimo 1930 in Uruguay – il primo Paese ad aver ospitato (e vinto) la competizione – e si ferma in Brasile, dove, nel 2014, trionfarono i tedeschi, anche se non mancano alcune riflessioni sul Mondiale di Russia che, come noto, non ha visto la partecipazione della nostra Nazionale.
Dai tempi dell’Uruguay schiacciasassi ne è passata di acqua sotto i ponti (oggi sarebbe impensabile per un giocatore raccontare le proprie gesta su un giornale, come avevano fatto negli anni Trenta i calciatori francesi Pinel e Chantrel, corrispondenti del quotidiano L’Auto, e Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale bicampione del Mondo e firma prestigiosa de La Stampa), ma in fondo il calcio è rimasto sempre lo stesso a dispetto delle diverse epoche susseguitesi. Bizzotto, da par suo, le attraversa con la delicatezza e la precisione maniacale del cronista, accompagnandoci per mano all’interno degli stadi e dei pensieri più reconditi dei protagonisti che li hanno “abitati”. Accanto all’urlo di Tardelli e alle magie di Maradona e Pelé risuonano i gesti silenziosi di chi scelse di non barattare la gloria del rettangolo verde con l’orrore: il calciatore argentino Jorge Carrascosa si rifiutò infatti di giocare in Nazionale per protesta contro il regime spietato di Videla (nel 1978 il Paese sudamericano avrebbe ospitato e vinto la coppa del Mondo). Una goccia assordante nel mare che dimostra quanto pallone e vita reale siano tutt’altro che rette parallele destinate a non incontrarsi mai.
Giuseppe Di Matteo
Storie di sport
Il Saggiatore
2018
330, ill