Era il 1939 quando un neanche quarantenne Carlo Levi, nella solitudine delle coste bretoni, lambite da onde sempre in movimento, fece sì che i suoi giorni da esule partorissero le pagine di questo meraviglioso, complesso La paura della libertà. Oggi, grazie all’editore Neri Pozza, possiamo leggere (o rileggere) quello che da molti viene considerato il vero manifesto poetico e politico dell’autore del più famoso Cristo si è fermato a Eboli, libro che può acquistare ulteriore significato dopo la lettura di Paura della libertà e delle sue parole così gravide di allegorie e di immagini luminose ma scavate in materia rocciosa. Non è certo un caso che Italo Calvino abbia scritto con forza quanto e come questo Paura della libertà debba essere considerato il libro più importante di Levi.
E sicuramente lo è, per molti aspetti. Non ultimo il fatto che Levi abbia, attraverso queste pagine, messo ben in chiaro come qualunque analisi non possa prescindere da uno sguardo che ne abbracci la complessità. In queste righe di inchiostro quasi sanguigno emerge tutta la forza di una lettura delle cose che si contrappone alla semplificazione, tanto, troppo in voga in questi giorni, in questa epoca omologata e omologante. E la complessità, per il Levi di questo Paura della libertà, porta a fare del concetto di religione la chiave di lettura e la cifra della riflessione politica e antropologica dell’Europa che, in quegli anni, si stava inesorabilmente buttando a braccia aperte verso la sua stessa catastrofe.
Un libro non facile, lo ripetiamo, che impone a chi lo legge lo stesso rigore di chi lo ha scritto sottraendosi alla tentazione di “limitare” alla politica un discorso che, certamente, sulla politica avrebbe avuto moltissime ricadute. Prova ne è il fatto che Paura della libertà sia stato un testo osteggiato quando non addirittura ignorato dalla cultura italiana e non solo da quella del dopoguerra. Come ricorda Giorgio Agamben nella straordinaria prefazione al libro: “Non è certo un caso se La Paura non fu mai ristampata come libro a sé dopo la seconda edizione del 1964, sebbene l’autore avesse esplicitamente dichiarato che questo “poema filosofico” era “il più importante dei suoi libri” e Calvino avesse ricordato che questo “libro raro nella nostra letteratura” era anche quello “da cui doveva cominciare ogni discorso su Carlo Levi.”
E leggendolo si può comprendere il motivo di tanta ostilità, incomprensione mascherata da critica al presunto peccato di spontaneità di cui fu accusato lo stesso Levi. Non c’è nulla di spontaneo in queste pagine, scandite da capitoli i cui stessi titoli obbligano a leggere la realtà di quei tempi (ma anche quella dei nostri giorni) alla luce di una visione articolata: Ab Jove principium, Sacrificio, Amor sacro e profano, Schiavitù, Le muse, Sangue, Massa, Storia Sacra, Paura della pittura. Sono questi i titoli che funzionano da indicazioni di percorso e prospettiva interpretativa.
Un libro che parte dalla religione, anche quella dello Stato, arrivando a parlar di simboli e di miti, di masse, di schiavitù e di sacro addomesticato in sacrificio, non poteva certo essere accolto con benevolenza da una cultura troppo impegnata a trovare materialismo e utilitarismo in ogni dove. E colpisce notare come, neanche tanto in fondo, l’analisi di Levi appaia così eccentrica rispetto alla cultura dominante anche oggi. Per tale motivo Paura della libertà suona come, a posteriori, profezia e, nell’attuale, come monito.
Un intellettuale che parla di sacro per compiere un percorso anche politico si pone come ostacolo alla facile certezza delle preghiere e della propaganda, alla tentazione di pensare che una catastrofe politica e culturale possa essere letta e “prevista” solo con le armi del discorso politico. Non si può, infatti, questo ci dice Levi in questo libro, comprendere lo Stato e la paura della libertà senza partire dai miti, dai simboli, dal senso religioso che anela a Dio ma che da Dio si deve distaccare per poter aspirare alla libertà stessa.
Sono parole e riflessioni, quelle di Levi, che seppur senza forzarne l’immersione nell’attualità, (cosa che lui stesso non voleva rispetto a quella che era, per lui, l’attualità dei suoi anni) non possono non essere abbracciate allo sguardo che dovremmo avere su quanto sta accadendo in questa epoca. Ci viene sbattuta in faccia, tra queste righe, una necessità di rielaborare totalmente il concetto di Stato e, conseguentemente, quello di ciascuno come individuo ma anche come “animale sociale” inserito in una comunità: “Ciascun uomo non abbastanza libero per poter comunicare con un altro senza perdersi, preferisce al rapporto umano reale una relazione puramente simbolica, per la quale non è necessario uscire da se stesso – e ciascuno fa perfino di sé un idolo poiché teme, attraverso troppo intime esplorazioni, di toccare profondità misteriose dove dissolversi.” Questa è, un po’, una chiave di lettura di ciò che per Levi contava, il divenire tra un punto e l’altro, tra l’essere indistinto e l’individuo. Ciò che sta tra i due estremi è ciò che può fare la differenza. Differenza e attualità di Levi, come ci ricorda Agamben: “Ma l’impareggiabile attualità di Levi sta nel fatto che i termini delle opposizioni che egli mette in gioco (sacro/sacrificio; indifferenziato/differenziato) non sono per lui sostanze, ma processi, non entità come nelle parole del suo malevolo critico, ma correnti che percorrono in senso inverso il campo di tensioni dell’uomo.”
Un intellettuale dunque che parla di processi e non di sostanza si condanna alla scomodità, alla complessità, al rigore di una riflessione in cui non si può prescindere dalla filosofia, dall’etica, dalla religione, dalla stessa poesia: “l’espressione religiosa è dunque l’opposto dell’espressione poetica – scrive Levi – L’una è la limitazione simbolica dell’universale, l’altra la sua espressione concreta; l’una è la manifestazione certa di una servitù liberatoria e divina, l’altra la voce stessa della libertà umana.”
Poema filosofico dunque ma anche testimonianza altissima di una intera condizione umana, di un perdersi, smarriti che Levi dipinge, è proprio il caso di dirlo, a conclusione del libro: “Il terrore della libertà ci fa estranei al mondo, e lo popola di mostri.”
Per me questo è un libro da cui, oggi in modo particolare, non si può più prescindere.
Letteratura, poema filosofico
Neri Pozza
2018
154