Vertigo 76
a Olga
Ethos anthropoi daimon
Eraclito
La propria qualità interiore,
per l’uomo, è un demone
Giorgio Colli
La notte serve a scrivere romanzi.
Milano, 1999.
Andrea salì di corsa le rampe delle scale, preferendole all’ascensore,e le salì al buio, un po’ per fretta, un po’ perché si divertiva a sgranchirsi le gambe dopo una giornata passata a poltrire su un divano, ascoltando e riascoltando strofe, basi, canzoni, loop, tracce, tracce vocali, soprattutto.
La prima cosa che colpì il suo udito da esperto fu la musica che proveniva appena qualche piano più su, proprio l’ultimo, esattamente quello che stava per raggiungere già col fiatone di chi abusa di troppe sigarette, ma mancava ancora un po’ e, la domanda sorse spontanea: perché avrà lasciato aperto l’uscio?
Non sarebbe bastato un orecchio sopraffine: una melodia così divulgata a tutto volume, di notte poi, sarebbe potuta essere percepita da chiunque, musicista o meno; in fondo, lassù, sarebbe bastato chiudere ambedue le porte protette da sofisticati pannelli insonorizzati, per ottenere privacy acustica, senza il pericolo di disturbare un condominio nel giusto riposo di un tranquillo lunedì sera.
Finalmente Andrea raggiunse il pianerottolo desiderato e, sì, davvero a breve avrebbero rischiato una denuncia per schiamazzi notturni, un verbale della municipale, una visitina dei carabinieri, che agli occhi dei giornalisti avrebbe significato un blitz antidroga, con il risultato di essere banditi dalla rotazione radiofonica o televisiva, distruggendo la promozione dell’album.
Oppure vendendo di più…chissà.
Andrea, il giovane magro magro dal ciuffo biondo, entrò e diede qualche mandata al chiavistello, poi appena qualche centimetro più avanti chiuse un pannello della stessa misura dell’uscio precedente, che fungeva da doppia porta, per evitare che all’esterno, nella tromba delle scale, fuoriuscisse qualsiasi forma generica acustica che i vicini avrebbero soltanto interpretato come satanismo, musica del diavolo, espressioni di follia di quattro mentecatti.
Eppure era passata soltanto mezz’ora e al tavolo del pub sedevano lui, insieme a Livio e Sergio, pronti a festeggiare, già con i calici in alto, coi sorrisi di chi in fondo ha raggiunto un primo step, una fase importante, l’ultima da produttori esecutivi di un lavoro che aveva impegnato mesi, sacrifici, incomprensioni, ma anche momenti irripetibili, in un lavoro sofisticato e febbrile, quasi con la coscienza che forse tutto non si sarebbe mai più ripetuto, donando ognuno le proprie risorse.
Intanto però, mancava il quarto componente, il cui bicchiere giaceva ancora colmo del vino versato da Sergio per ognuno, ed era lì, proprio accanto ad Andrea quel posto vacante, incolmabile, fastidioso così tanto da sembrare occupato dalla più profonda antipatia di chi non si sarebbe presto associato ai festeggiamenti.
E fu proprio per questo che si sentì in dovere di chiedere scusa ai pochi presenti, alzarsi dalla panca di legno e avviarsi verso l’uscita.
Attraversò la strada e s’imbucò nell’androne del palazzo che fronteggiava il locale.
Questo perché Marco mancava all’appello.
Marco spesso mancava e basta, ma egli lo stimava e questo lo incitava a dimenticare screzi, giustificare i modi altezzosi di chi sa di saper battere tutti su tutto con la sua preparazione, oltre che con la sua furbizia intellettiva, quindi il giovane biondo e magro restava l’unico collante ancora capace di unire Marco a Sergio e Livio.
Andrea percorse, sempre nel buio, il lungo corridoio che terminava in un impercettibile fascio di luce, le cui pareti erano costellate qui e lì da dischi incorniciati, foto, documenti importanti appesi come trofei, semplici referenze rilasciate dai master, il tutto avvolto nell’atmosfera delle note di quel brano che aveva imparato a conoscere bene in gioventù, e a saperlo interpretare tramite la percezione personale che ogni essere dotato di un minimo di sensibilità possa fare.
Finalmente, trafelato, varcò l’ingresso della stanza che fungeva da studio d’incisione.
Lì, come ovvio che fosse. la musica era potentissima e l’atmosfera della stanza era quasi al buio, se non fosse stato per un flebile puntino di luce che proiettava un debole fascio sui cursori del mixer, illuminando dolcemente gli ottoni del suo sax poggiato a pochi metri dal punto focale.
Appena dietro al banco mixer un ampio plexiglass che divideva lo stanzone delle riprese a quelle della direzione dei lavori e, proprio dinanzi ad esso una sedia da ufficio in pelle nera sembrava muoversi in brevi movimenti circolari ora dal lato destro, ora sul lato sinistro, nel rispetto della quasi precisa angolatura precedente; un folto ciuffo rosso tinto, tenuto fermo da uno spesso strato lucido, come di brillantina, fuoriusciva appena dallo schienale della grossa sedia; il volto pallido di Marco ora si lasciava intravedere appena.
Andrea chiuse la porta della stanza e l’individuo che gli dava le spalle terminò il suo mezzo giro a sinistra, ritornò al centro prima di restare fermo; una mano esile, la sinistra, si allungò verso il cursore del volume, riportandolo giù, a poco meno della metà, mentre l’altra si sollevò e ondulò l’indice e il medio, come ad offrire un invito: prego, vieni avanti!
La musica, che si diffondeva dagli altoparlanti posizionati in maniera strategica verso la direzione di chi avrebbe ascoltato, cambiò gradualmente tono, offuscandosi man mano che il dito di Marco accompagnava sul binario del mixer il cursore necessario verso il basso.
Andrea si avvicinò all’amico e, poggiando una mano sulla sua spalla, accompagnò il corpo seduto nel movimento circolare della sedia d’ufficio verso sé stesso, costringendo così Marco a guardarlo dritto negli occhi e, davvero non si sbagliava: il volto bianchissimo di chi è stato troppo tempo recluso tra quattro mura, il naso piccolo e regolare, la bocca una semplice fessura rossa accentuata dal pizzetto della barba a forma d’ancora che gli incorniciava il mento; le sopracciglia curate e alte sugli occhi troppo grandi, cerchiati di nero, di certo disegnati con una matita da rimmel, sulla sommità di una fronte ampia l’attaccatura perfetta e folta dei capelli tinti di rosso appena tirati all’indietro ma con una marcata scriminatura al centro; il tutto ottenebrato dalla stanchezza fisica di una giornata passata al lavoro.
Andrea accese una specie di abajour e subito una luce più chiara si diffuse nel piccolo angolo di mondo.
Raccolse l’altra sedia d’ufficio che distava a pochi passi da quella interessata e vi si sistemò bene bene.
Sul tavolo di fronte una custodia di un CD racchiudeva la copertina che aveva immaginato: un uomo fotografato di profilo occupava quasi tutto lo spazio necessario, il colore della foto, tra il rosso e il marrone, dava un senso di rispetto e di timore insieme, lo sfondo sembrava un cielo da cui si minacciava un’imminente tempesta di sabbia e il personaggio che si stagliava di profilo, nella sua eleganza vampiresca, indossava un pesante soprabito scuro, sembrava un montgomery, col cappuccio che si adagiava sulle spalle e con l’alto bavero che gli tagliava parte della mandibola.
Ma la cosa più straordinaria era che quel tipo portava lo stesso taglio di capelli, e quasi dello stesso colore di Marco, elegantemente eppure sciattamente portati all’indietro ma così folti da cadergli su un lato. Al di sopra di tutto, le tre parole che non destarono stupore: il nome dell’artista e il brevissimo titolo dell’album.
Andrea puntò il suo sguardo algido verso l’amico al suo fianco e restò a scrutarlo con i suoi occhi chiarissimi e profondi; con un brusco movimento del capo scostò il ciuffo biondo che gli ostacolava parte della vista, si liberò del soprabito che lanciò su un lato remoto della stanza, quindi restò col suo completo comodo, giacca blazer grigia sopra una T-shirt con il barattolo Campbell di Warhol, jeans di un nero stinto su sneakers a tinta chiara.
Marco si accomodò meglio sullo schienale e diede una scrollata alla camicia violacea che portava infilata in eleganti pantaloni neri attillati, allungò le gambe e si tolse le scarpe; accontentò Andrea rivolgendogli uno sguardo vacuo, poi senza distogliere gli occhi guidò la sua mano sinistra verso il telecomando del lettore CD e premette il tasto di riproduzione del brano che si era appena concluso, e che quindi ripartì.
Ricominciò quella melodia d’atmosfera, riverberata, ricca di perdizioni sonore e versi zanzarosi, e una voce stanca e suadente, che sembrava arrivare da lontano, faceva il suo ingresso con un sussurro, più che con un canto:
“Every chance, every chance that I take
I take it on the road…”
Marco abbozzò un sorriso da schizofrenico, per nulla ammaliante.
A metà degli anni 80 aveva conosciuto Andrea, mentre quest’ultimo sedeva al pianoforte a casa di amici e intonava una melodia dei Depeche Mode, attirando all’istante la sua attenzione; nel 1989, insieme, appena diciottenni avrebbero firmato con la Polydor per un progetto elettro-pop che ostentava troppa audacia ma poca personalità; infine nel 1991 la riuscita di una band d’impatto il cui primo singolo di successo nasceva nel 1994 e anticipava il primo album, che invece arrivò l’anno successivo, con l’aggiunta di Sergio alla batteria e Pancaldi alle chitarre, sostituito da Livio nell’album successivo, del 1997, che regalò la giusta ricompensa nell’ambito di successo commerciale.
Insieme, sotto la guida di Marco, avevano abbozzato l’idea di un fil rouge che avrebbe legato tre album consecutivi, come se il tutt’uno diventasse a tal fine un gigantesco concept che avrebbero denominato Trilogia Chimica.
Nel momento in cui si narra questa storia, dunque, i quattro amici avevano appena terminato le riprese dell’ultimo disco della trilogia, che aveva ospitato, tra l’altro, anche il M° Battiato e il M° Pagani, e ora avevano prenotato una cena al pub di fronte per festeggiare la buona riuscita, perché il sound era buono, e perché la chimica instauratasi sembrava perfetta.
“La questione è l’interesse nelle cose” citò Marco con la sua voce flebile, stanca per le sessions vocali durate tutta la settimana, tutti i giorni.
“Il messaggio è conservare bottiglie vuote” gli rispose a tono Andrea, citando egli stesso la frase che avrebbe chiuso la strofa recitata, e indicando con l’indice una bottiglia mezza vuota delle tante di Nero D’Avola che il M° Battiato aveva portato dalla Sicilia.
Facendo attenzione, Andrea si accorse che sulla console c’era un bicchiere vuotato da poco di una sostanza rosso scuro: non poteva che essere vino.
“Ah, bene, noto che hai iniziato i festeggiamenti senza di noi” lo ammonì.
Marco lo fulminò, accigliato: “Il genio spesso vive, si nutre, studia, piange, ride, scrive…e festeggia in solitudine, per il semplice fatto che staziona tra le incomprensioni altrui. Non c’è proprio nulla che si possa poter cambiare in lui, eccetto la possibilità di poter cambiare aria, lasciandolo cuocere nel proprio brodo”
“Mi pare che tu stia iniziando ad inventarti un ruolo” lo sfidò Andrea.
“Ma io mi sento preparato ad una sfida, la stessa che si può riscontrare proprio quando sto per battermi contro ciò che hai appena affermato, cioè che inventandomi un ruolo rischio di non essere sincero…ma caro mio, io SONO sincero e…ehm…vuoi sapere cosa diceva Moravia di Pasolini? Pensa di dire la verità; e quando si pensa di dire la verità c’è qualcosa che ce la fa dire veramente.”
Sollevò il busto dallo schienale, acciuffò il pacchetto di Marlboro sulla console, lo battè sulla coscia sinistra e sfilò una sigaretta con gli incisivi, avvicinò il viso all’accendino offertogli da Andrea; tirò fino ad allumare il tabacco, ritornò nella posizione originale aspirando con vigore e si abbandonò soffiando una nuvola di fumo.
“Ma intanto, veniamo a noi, e dimentichiamoci dell’accaduto” sentenziò col solito arbitrio.
Sollevò di poco nuovamente il cursore del volume e arrivò al dunque:
“Abbiamo raggiunto la dimensione esatta con questo album e ne sono contento. Il giudizio di chi ascolterà sarà volutamente discostante dalle aspettative perché qui ci abbiamo messo tutto ciò che c’era nel primo della Trilogia, quello che c’era nel secondo e ciò sarebbe dovuto esserci nel primo e nel secondo, sarebbe a dire tutto il terzo, dove il rock, il synth, il pop, l’ermetismo, il pensiero…”
“Il sovrappensiero” s’intromise Andrea
“Forse” rise Marco “che stavo dicendo? Ah, sì…la rivalsa dei sensi nelle parole hanno preso piede ma…ehm…ci sarebbe ancora da chiudere l’ultimo paragrafo dell’ultimo capitolo, come se volesse indicare una postfazione, o meglio un epilogo che poi, neanche sarei sicuro di inserirlo alla fine…”
“Spiegati, per favore, e cerca di fare in fretta. I ragazzi ci attendono” lo incitò Andrea.
Marco indicò con la sigaretta la custodia del CD e con un ulteriore sbuffo di fumo scostò il capo in direzione dell’altoparlante accanto, indicandolo col mento.
“Dobbiamo suonarla e inserirla nell’album. Riassume con esattezza il concetto delle nostre parole, delle nostre melodie, tutto partirebbe da qui e finirebbe da qui”
“Ma l’abbiamo già suonata tante volte, e poi abbiamo quel demo tape…”
“Puah! E tu vorresti inserire quella merda nel nostro album celestiale? Daccapo bisogna ricominciare! Con stile! Always crashing in the same car! Sbattere sempre contro lo stesso ostacolo anziché aggirarlo, perché spesso la comodità dei nostri vizi ci fa stare bene e ciò di cui avremmo davvero paura è il cambiamento che si troverebbe al di là di esso” quasi urlò Marco, come se la sua voce non fosse stata già messa a dura prova dal lavoro.
“ A proposito…” ridacchiò sollevandosi di nuovo per metà e versandosi del vino nel bicchiere, allungandolo verso Andrea in segno di brindisi e di vittoria, non certo per offrire.
“Ma tu davvero credi di conoscere la storia di questa canzone? Sai, ho letto uno speciale sulla Trilogia, la sua intendo, quella berlinese, in lingua originale, su una copia di Rolling Stone, dove David spiega per filo e per segno cosa accadde quel lunedì sera mentre era in auto…e be’, ci terrei a spiegartela. Vedrai che ti piacerà”
“ Ma Sergio…Livio…”
Quasi come dopo una premonizione, il cellulare di Andy squillò. Era Sergio.
“ Dieci minuti e lo trascino giù, ve lo prometto. Intanto iniziate pure” Riattaccò.
Quando distolse lo sguardo dai tasti del telefono, si accorse che Marco gli aveva allungato un bicchiere colmo per metà del Nero d’Avola, che ancora ondeggiava in superficie. Non riusciva, non sapeva, non poteva resistere alla potenza dei racconti dell’amico. Era davvero bravo nelle parole, tanto quanto nella sua musica.
Avvicinarono i bicchieri e brindarono, poi dopo un breve silenzio:
“In realtà i fatti iniziarono un po’ di tempo prima del periodo interessato” cominciò “Era il 1975 e David Robert Jones incrociò un certo James Newell Osterberg Jr. mentre era imbottigliato nel traffico del Sunset Strip, Los Angeles, California”.
Si portò la sigaretta tra le labbra, poi entrambe le mani dietro la nuca, incrociandone le dita.
“Sai, non se la passava proprio bene. Considerando che in sette anni di intensa attività aveva pubblicato, se non erro, ben otto dischi, questo era il periodo più buio in assoluto”.
Nel disco in sottofondo Be my wife prendeva il posto di Always crashing in the same car.
“ Così gli venne in mente di produrre James, un artista che aveva sempre stimato, ma poi non se ne fece più nulla, perché il signorino, ecco, aveva qualche problema di forte dipendenza da eroina”
“Si bucava?” chiese Andrea.
“Da far schifo, dicono. Ma David ebbe compassione, perché in James intravedeva lo specchio di se stesso, il suo alter ego, e un anno dopo decise di aiutarlo con la ripresa del progetto che aveva pensato e che alla fine riuscirono a portare a termine. E la storia inizia proprio da quell’anno, il 1976, un lunedì di fine estate, mentre giravano in auto per le strade di Berlino”.
“Come fai ad essere così sicuro che questa cosa che stai per raccontarmi fosse iniziata proprio di lunedì?” gli domandò Andrea
“Ed anche in questo sono preparato” prontamente ridacchiò Marco “questi avvenimenti coincidono con lo stesso periodo del famoso detto di James Newell Osterberg, che più o meno recitava così: ci sono sette giorni in una settimana, due per fare baldoria, due per riprendersi e tre per fare qualsiasi cosa!!!!”
“Ah, beh allora sarebbe potuto accadere anche di martedì, non credi?”
Le vite degli altri.
Berlino Ovest, 1976.
“Il DENTE BUCATO!”
“E smettila!”
Lunedì.
Una tiepida serata di fine estate accompagnava due vecchi amici in auto tra i viali di una città al centro dell’Europa: Berlino.
L’elegantissima Mercedes Ponton Coupé ora stava attraversando Kantstrasse ad una velocità costante.
La direzione era quella che portava alla zona dello Zoologischer Garten, in pratica lo spazio verde che conteneva l’enorme zoo di Berlino, naturale prolungamento di ciò che stava alle sue spalle, il Tiergarten, il parco.
David Robert Jones, che era alla guida, ora premette un po’ di più l’acceleratore e il grosso motore da sei cilindri, con una potenza da 100 CV e una cilindrata di 2195 cc, fece sentire il suo rombo tra il traffico scorrevole del viale, quindi con un colpo di clacson sorpassò una lentissima Isetta e proseguì a velocità più sostenuta verso Breitscheidplatz, la piazza che gli si apriva davanti, al cui centro spiccavano due costruzioni di diversa struttura, ma quasi simili nell’altezza.
La costruzione sulla destra, la torre campanara, era di uno stile orrendamente moderno e quasi futuristico, di forma esagonale, innalzata nei primi anni ’60, l’altra invece era ciò che restava della stupenda chiesa ottocentesca, gotica, dedicata all’imperatore Guglielmo, ora ribattezzata Chiesa della Memoria, perché colpita duramente durante i bombardamenti degli Alleati durante la II Guerra Mondiale.
Sulla sinistra di essa, invece, più bassa, vi si trovava la nuova chiesa, costruita anch’essa nello stile della torre campanara, ma ottagonale e molto più ampia, il cui unico pregio era quello di contenere infiniti e coloratissimi vetri che, a nido d’ape, fungevano da pareti.
Le istituzioni avevano dichiarato inagibile e pericolante la chiesa antica semidistrutta e nel 1947 tutto era pronto per l’abbattimento, ma i cittadini insorsero, e con un referendum capirono che più della metà dei berlinesi voleva che restasse in piedi, o almeno ciò che rimaneva.
David, quando era in pausa tra una session e l’altra, zaino in spalla e in sella alla sua bici, l’aveva visitata, e inoltre, sapeva che all’interno del duomo moderno vi era, in alto, un’enorme figura dorata di un Cristo con le braccia spalancate che pareva stesse sospeso nel vuoto, e la luce blu intensa che filtrava dalle piccole finestre alle spalle di esso lo proiettava come in un universo di spazio disconnesso dal resto del mondo, in un’estasi paradisiaca.
Ora, col gomito oltre il finestrino, una sigaretta che si consumava per lo più al vento, tra l’indice e il medio della mano sinistra, mentre con la destra teneva ben saldo il grosso volante della Mercedes, i capelli puliti rosso cremisi fluttuavano debolmente in tutta la loro media lunghezza, David guidava in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di droghe pesanti.
Indossava pantaloni neri gessati di taglio regolare e una camicia grigia appena sbottonata che lasciava scoperto il collo sottile e bianchissimo.
Alzò i suoi occhi di colore disuguale verso le due torri, così alte e così diverse tra loro, testimoni fisici di due epoche diverse, una nella sua forma perfetta e squadrata, l’altra nella sua struttura che un tempo si innalzava altissima e che ora conservava una metà di quella guglia che lo diversificava dal resto, distrutta, spezzata.
James Newell Osterberg Jr, al suo fianco, stava stravaccato sul sedile con una sigaretta tra le labbra, una bottiglia di scotch nella mano sinistra, perso ancora nel torpore dell’ottimo Bordeaux che aveva innaffiato a fiumi la cena, ogni tanto sollevava il liquore e lo tracannava in lunghe e coraggiose sorsate, poi si puliva distrattamente il mento con la manica della giacca chiara che portava senza camicia.
Il suo caschetto nero, tipico, un po’ unto, insieme all’inusuale frangetta restavano incollati al capo, nel sudore di chi forse ci dava troppo dentro, incurante degli effetti.
Poi, all’improvviso, seguì la direzione dello sguardo dell’amico, saltò sul sedile, quasi rischiando di rovesciare lo scotch sul sedile in pelle, e con la mano libera indicò il monumento che s’innalzava oltre il parabrezza, e che ora lo stavano lasciando sulla sinistra, con gli occhi sbarrati e la voce ferrosa, esclamò:
“IL DENTE BUCATO!”
“E smettila!” lo ammonì David “non si scherza con queste cose”.
In effetti James non aveva proprio tutti i torti.
La guglia di ciò rimaneva del campanile della Chiesa della Memoria, ora orrendamente spezzata nella metà della sua forma originale, era ingiustamente denominata dai turisti il dente bucato, che proprio a causa della sua forma attuale somigliava a un grosso canino spezzato e cavo.
I berlinesi odiavano quel nomignolo.
E David, un po’ come tutti gli intellettuali che avevano capito la sensibilità che dilagava tra le strade della città, ora un po’ si sentiva un berlinese, proprio come per un attimo si era sentito John Fitzgerald Kennedy dall’alto del suo podio a Rudolph Wilde Platz di fronte a una folla oceanica, nella sua visita nel 1963, qualche mese prima di essere ucciso, esclamando: “Ich bin ein berliner”.
“Uff! Ma dov’è finito il mio compagno di giochi di una volta?” quasi in maniera comica piagnucolò James, come se si stesse riferendo ad un amico di un’infanzia mai finita.
In verità i due amici si conoscevano dal 1972, quando David aveva deciso di puntare sul carisma di James, che militava in una band davvero forte, in cui era a tutti gli effetti il leader cantante, dove su ogni fronte trionfava una musica dal sapore rock auto-distruttivo, qualcosa di mai sentito prima di allora, con chitarre distorte al limite di un’accordatura volutamente imperfetta; la forza sulla batteria poi, sulla cui ritmica un basso si limitava ad eseguire le note principali
E il frontman?
Si sbatteva come un forsennato da un lato all’altro del palco, molto spesso infierendosi con puntali di vetro, tutto sanguinante.
David, col suo fiuto da produttore oltre che da musicista, aveva intuito che quel gruppo rock, in tutto e per tutto, aveva davvero qualcosa di nuovo da dire.
Aveva iniziato a frequentare James proprio in occasione alla produzione del nuovo album della sua band, nel 1972, in California, e da allora non perdeva occasione nel citare il suo amico come una delle promesse della nuova musica rock che stava prendendo il sopravvento e che sbaragliava tutti gli stereotipi classici che imperversavano da troppi anni.
Il disco uscì ed ebbe un discreto successo, che però non fu perpetrato dall’impegno della band, che era troppo impegnata nel utilizzo di droghe pesanti, problema che riguardava innanzitutto il leader distruttore e temibile: James.
David lo ritrovò, un anno dopo, ancora più perso, mentre entrava e usciva da centri di recupero per tossicodipendenti, proprio durante il suo tour negli States, e la sua condizione di straccione senza tetto, per di più drogato, gli fece una pena immane.
Quindi lo caricò su col resto della band e lo aiutò a distrarsi.
Nello stesso tempo coltivò un’amicizia, con una simbiosi che mai avrebbe immaginato potesse coesistere, perché sì, anche lui aveva problemi con la droga e James non era altro che il suo specchio, su cui si rifletteva la sua stessa immagine di uomo stravolto dai vizi.
Sentiva che aiutando un amico avrebbe avuto una terapia benefica anche su se stesso.
Così, alla fine del tour del 1976, aveva proposto a James di riprendere il discorso.
Il progetto fu ovviamente accettato.
Cos’altro poteva fare quel dannato, se no?
Tra giugno e luglio si chiusero, insieme alla band, nello studio di registrazione dello Chateau d’Hérouville a Pontoise, in Francia, castello famoso per essere stata l’ultima dimora di Chopin e della moglie George Sand, e che ora si diceva fosse infestato dai fantasmi della celebre coppia.
Dopo aver terminato le voci di James a Monaco di Baviera, si erano infine trovati, per il missaggio, allo studio Hansa by the Wall, proprio a ridosso dell’orrendo Muro di Berlino.
Ora, il tanto agognato album solista di James era terminato, e stavano rilassandosi, godendosi la parte occidentale della città, con le sue mille offerte di baldoria.
Quella sera, ad esempio, per festeggiare la fine delle riprese del disco, erano andati a cena al Paris Bar, lussuoso ristorante francese dal gusto bohémien situato al 152 di Kantstrasse, dove avevano gustato due insalate con formaggio di capra caldo, due fois gras con del pane squisito e due bottiglie di Bordeaux.
Era stato un banchetto all’insegna del relax, ma dove si era parlato anche di cose importanti, come dell’imminente uscita del disco di James, del tour che ne sarebbe seguito, dove David avrebbe fatto parte della crew di musicisti, occupandosi delle tastiere e dei cori; della possibile e prossima sistemazione in un appartamento modesto; di alcuni loro problemi, come la questione della tossicodipendenza.
“Facciamo così” aveva proposto James “stasera facciamo i bravi, niente schifezze!”
“Ci sto!” accettò di buon grado l’amico.
Poi, per suggellare il patto, avevano avvicinato i bicchieri colmi di vino e avevano brindato, e ognuno aveva tracannato il suo contenuto in pochi secondi.
Ora, vuoi per la baldoria che iniziavano a fare, vuoi per le distrazioni alimentate dal vino pregiato che cominciavano a ombreggiare i discorsi seri, pian piano, questi due scapestrati, ormai vicini ai trent’anni, chissà perché, avevano dimenticato la promessa e, a turno, senza dare spiegazioni a chi gli era di fronte, con la scusa che gli scappava, erano fuggiti in bagno e se l’erano tirata proprio lì, la coca, con una banconota arrotolata da dieci marchi James, e con l’apposita cannuccia d’argento a misura di narice, David, ambedue sul ripiano del lavandino, senza troppi rimorsi.
Berlino Ovest, 1976 (continua)
Una nuova carriera in una nuova città.
David, dal suo canto, continuava la ricerca nel campo delle sperimentazioni musicali per ridare nuova vita alla forma che secondo la sua idea un disco rock moderno avrebbe dovuto possedere.
Stava già lavorando al nuovo album, che quasi sicuramente sarebbe uscito per la fine dell’anno: un esperimento che dissimilava dalle sue passate produzioni e, addirittura si discostava anche da quello che aveva pensato per James.
Quindi tutto era pronto per ritornare in Francia, allo Chateau, per le riprese.
Lo studio era stato prenotato, le canzoni prendevano sempre più forma nella sua testa e i musicisti erano tutti eccezionali, fantasmi compresi.
A dir la verità neanche lui se la passava un granché bene.
Lasciata definitivamente la Gran Bretagna, suo paese d’origine, il periodo trascorso a Los Angeles nel 1975 (anno in cui aveva di nuovo incontrato James) era stato tra i peggiori mai passati prima di allora, con le sue diete a base di latte e peperoni, le sue intere giornate chiuso al buio in una stanza, la forte dipendenza alla cocaina, le sue frequentazioni discutibili, come quelle con gli spacciatori, le sue letture oscure e temibili, insieme alla depressione e gli sbalzi d’umore e le manie da psicopatico che prendevano il sopravvento su un fisico ridotto a uno scheletro.
Non poteva continuare in quel modo, e i suoi disturbi psichici erano stati trasmessi anche all’album che ne seguì, la cui copertina non era altro che una foto scattata sul set di un film appena concluso, a cui aveva partecipato, e dove interpretava la parte di un alieno in missione sulla Terra.
Attualmente David si sentiva davvero un extraterrestre, senza scherzi.
Per un gioco di combinazioni, come la sua passione nei confronti dello scrittore Cristopher Isherwood, inglese naturalizzato tedesco, o come il suo contatto quasi diretto con gli intellettuali che erano fuggiti dalla dittatura della Repubblica di Weimar e avevano trovato proprio riparo lì in California, come il drammaturgo Bertolt Brecht o il regista Fritz Lang, oppure in seguito alle sue oscure passioni da lettore interessato ai trascorsi nazisti tedeschi, si era di conseguenza legato alla città di Berlino.
Quindi proprio lì aveva provato a sperimentare i missaggi al famoso studio Hansa in cui aveva individuato la sua culla di transizione da un periodo terribile e quello successivo che, si sperava, avrebbe portato novità entusiasmanti che lo avrebbero allontanato dalla cocaina.
Le situazioni personali continuavano a sfiancarlo, iniziate con i problemi col fisco sui suoi diritti d’autore in Inghilterra, principale causa del suo allontanamento, e in più, ora, su verdetto del tribunale, gli toccava pagare la metà degli introiti di quasi tutti gli album precedenti al manager con cui aveva voluto rompere ogni contatto, il che non lo aiutava né nella disintossicazione né nella sconfitta alla depressione.
Inoltre c’era da pensare a Joey, il figlioletto che avrebbe a breve compiuto cinque anni, e che nell’immediato, sotto la sua tutela sarebbe stato iscritto a una scuola privata inglese proprio lì, a Berlino.
Il bambino, inoltre, cominciava a soffrire dell’allontanamento sempre più evidente dei genitori, in cui Angela, la madre, lasciava ormai David a cucinarsi nel suo brodo, nonostante avesse cercato in passato di recuperare i rapporti, e dove il marito, nonostante fosse un padre premuroso, continuava la sua fase di perdizione che non gli lasciava spazio agli affetti tanto desiderati dal piccolo.
Berlino, quindi, con la sua sofferenza sentita, con il Muro che innalzava sentimenti di odio, di provocazioni e di rabbia, con le persone che camminavano sempre all’ombra, a testa bassa, ognuno con i suoi pensieri legati alla sorte di una città ancora abbagliata dagli eco della guerra, con il Socialismo della DDR nella parte orientale, con le vite degli altri tutte uguali, con gli stipendi tutti uguali, con la mobilia e le case, tutte uguali, con le auto Trabant, semmai arrivassero a conquistarle, tutte uguali, e con le vacanze premio, tutte tipicamente a colonie tutte uguali, e con il forte vizio del bere, tutto uguale.
Nella parte occidentale, al contrario, il capitalismo che prendeva il sopravvento sulle sorti di ciò che sarebbe diventato il mondo consumistico da lì a qualche anno, con le sue luci scintillanti, le vetrine ricche di sponsor, gli abiti sgargianti, le Mercedes, le Bmw e le Porsche, le battone in strada, i club esclusivi per gay, i ristoranti di varie origini, le carriere degli uomini abituati a sorpassarsi per raggiungere quanta più ricchezza possibile, anche con l’inganno; la potenza delle banche, e l’eroina venduta in strada.
Potevano mai i berlinesi, persi nelle loro questioni da risolvere, pensare ad una rockstar inglese sbandata che aveva perso il filo della ragione e che stava trovando un appiglio per salvarsi dal baratro?
“In questa città a nessuno frega un cazzo di me, quindi io resto qui” aveva pensato.
Ne aveva fatto menzione all’inseparabile amico, con cui, nel frattempo, divideva una stanza all’ Hotel Gerhus, nell’attesa che si trovasse una soluzione più comoda, come un appartamento non proprio centralissimo, dotato di comfort necessari, che lo aiutasse a portare avanti una vita nell’anonimato, uguale in mezzo ai tanti che lo sfioravano in strada e neanche lo riconoscevano, con suo enorme piacere.
Inoltre, c’era da valutare un altro aspetto fondamentale di quella realtà cittadina distorta da mille giustificati pensieri: da tutto quel casino ne era sorta la creazione di una musica che abbracciava solo le sorti dei tedeschi.
Sì, certo, c’era il punk da un lato, con le sue canzoni brevissime e distruttive, dalla struttura che si riduceva all’osso, di tre, al massimo quattro accordi ripetuti con voga e all’infinito, che aveva tutto d’un tratto sfondato la barriera dei musicisti d’antan che dominavano la scena dall’inizio degli anni Sessanta; dall’altro invece, la disco music.
David Robert Jones si sentiva da sempre uno sperimentatore, o comunque ci aveva provato sin dall’inizio, da quando era emule di Dylan nel ’69, oppure quando aveva creato personaggi bizzarri, truccatissimi e androgini che gli facessero da alter ego, all’inizio dei Settanta, il cui giudizio dei puritani non era altro che l’alimento principale che aveva nutrito la sua carriera.
Ora, esauritosi l’entusiasmo giovanile, sulla soglia dei trenta, con i problemi che incombevano sulle scelte di creare altre storie e altri alter ego, non poteva far altro che aggrapparsi alla novità che un popolo più giovane e più lontano dalla sua cultura stava creando, in questo caso il kraut rock, movimento musicale che non includeva alcun genere definito.
Prima di entrare in studio, era innanzitutto interessato ad ascoltare le nuove produzioni, e spesso, insieme a James, si recava ai concerti, dove si respirava più intensamente l’aria di novità.
C’erano ad, esempio, i Kraftwerk con la loro elettronica elevata ad una misura esponenziale impressionante, oppure i Neu!.
Ma il dado era tratto, per David, e la resa dei conti avrebbe significato immergersi totalmente nell’atmosfera culturale e indipendente di quella città spaccata in due, dove, lo sentiva, avrebbe dato vita alla nuova epoca di risvolti personali e professionali che avrebbero rispecchiato la sua maturità.
A rischio di rompere con l’etichetta discografica, a rischio di non essere comunque accettato dalla schiera di adolescenti tra i quali non avrebbe avuto alcun posto di rilievo, capiva, sentiva che quella era la direzione da prendere, e che quella sarebbe stata la possibile soluzione per fuoriuscire da un tunnel che gli oscurava le prospettive.
L’uscita riusciva già a vederla, e negli ultimi tempi gli illuminava appena il viso.
Berlino 1976 (continua)
Sbattere sempre contro lo stesso ostacolo.
La grossa Mercedes ora stava attraversando Breitscheidplatz, circumnavigandola per metà del suo perimetro, e lasciandosi dietro La Chiesa della Memoria, virò prima leggermente ancora a sinistra, poi all’incrocio svoltò lesta a destra e imboccò il Kurfurstendamm, ossia il lunghissimo viale che anch’esso sfociava sulla piazza.
Il Kurfurstendamm, che corre per quasi quattro chilometri nel quartiere di Charlottenburg, oltre che un’arteria principale di Berlino, iniziava a diventare un luogo simbolo della vita mondana e divertente di una città che ricominciava a risvegliarsi dai torpori di un’ingiustizia sofferta troppo a lungo.
David schiacciò la sigaretta nel posacenere e si aggiustò con gesto consueto una ciocca cremisi cadutagli sull’occhio destro, quello dall’iride azzurra, poi si adagiò allo schienale e guidò in maniera più rilassata, accarezzando appena il volante, e gustandosi le luci scintillanti che riflettevano sulla carrozzeria tirata a lucido.
James armeggiò con la manopola della radio e trovò l’emittente Westdeustcher Rundfunk, in assoluto la sua preferita, e alzò il volume, perché stavano passando proprio in quel momento il brano Caramel dei Cluster, una musica elettronica da sballo, quindi iniziò a danzare seguendo il ritmo della canzone, roteando le braccia, coi gomiti stretti ai fianchi, e i pugni chiusi, e la testa che ballonzolava ora a destra, ora a sinistra, oppure avanti e indietro, sempre a ritmo, perso nell’estasi esplosiva dell’alcol mischiato alla coca.
“Allora, Dave, come hai deciso di intitolare il prossimo album?” chiese senza interrompere il suo ballo sfrenato.
“Cazzo vuoi che ne sappia, Jim?”
“Vabbè, tu un’idea ce l’hai sempre, dai! Cioè, dico… le hai avute per me e come pensi che voglia credere che non ce l’abbia per TE?! Mi prendi per il culo?” domandò con voce impastata.
“Beh, sì, amico. Mi hai letto nel pensiero. Voglio stravolgere le aspettative di chi mi crede un matusa, e voglio fare anch’io qualcosa di nuovo” dichiarò David indicando appena l’autoradio “quindi il nuovo album s’intitolerà New Music: Night and Day”.
James bloccò di colpo la sua danza elettrica e guardò l’amico tra la sua frangetta nera e lucida.
“Che schifo!” sbottò.
“Come cazzo ti permetti?”
“E’ una merda, ti dico” sottolineò il frangettone “devi assolutamente pensare a qualcosa di più incisivo, e soprattutto di più breve, che renda davvero l’idea di ciò che tutti si aspetterebbero da te, e allo stesso tempo, che non si aspetterebbero affatto! Prendi ad esempio queste band. NEU!! DEVO! KRAFTWERK!, dritto, diretto e funzionale allo stesso istante!”.
David guardava davanti a sé in maniera sarcastica il viale che occupava tutta la prospettiva, poi portò una mano al mento per strofinarselo, come fa chi pensa.
Cazzo, se aveva ragione quel fattone che aveva accanto!
Non aveva sempre pensato, sotto sotto, anche lui, che celata dietro una maschera comica, si nascondesse in realtà una genialità senza pari?
Si lisciò di nuovo i capelli e guardò con la coda dell’occhio quell’inesauribile pazzoide drogato, quindi abbozzò un sorriso.
Hai vinto, stronzo!
James assunse una posa sbilenca, posando una mano dietro la nuca e squadrando da più lontano, con un occhio solo, come per prendere la mira, quell’ubriacone cocainomane che guidava e che ora sorrideva.
Intanto la Mercedes si fermò e lasciò attraversare una signora un po’ avanti con gli anni, tutta inferrettata ed elegante, visibilmente ricca ma claudicante, a braccetto con un gigolò di turno, un ragazzone alto e biondo, dall’aspetto di un giovane di vent’anni.
“Chissà come farà a ingropparsela la vecchia…”
“Ognuno fa del suo meglio per campare”
“O del suo peggio”
Risero, mentre la musica dei Cluster diede spazio a Half past one dei Can, e a quel punto neanche David seppe trattenersi nel dare sfogo alla sua voglia di ballare, e insieme all’amico diedero vita a un pericoloso duetto che faceva sobbalzare la grossa auto in sosta.
Un lungo colpo di clacson li fece riemergere per un attimo dalla vibrazione avvolgente che gli attraversava le viscere e la testa, quindi David premette l’acceleratore e la grossa berlina rombò e partì con uno stridere di pneumatici assordanti, quasi impennando e trascinando i due passeggeri all’indietro.
James si sporse pericolosamente fuori dal finestrino e, aggrappandosi al tettuccio, coi capelli che gli schiaffeggiavano il viso, e la giacca che sballottava al vento, mostrò il dito medio all’auto che li retrocedeva, ricevendo in cambio un abbaglio che per poco non gli fece perdere l’equilibrio.
“Dai, andiamo a Kreuzberg, voglio ascoltare qualche nuova band al S036! E’ da un po’ che non ci torniamo!” propose James.
“Peccato che stiamo proseguendo nella direzione opposta, amico” precisò il compagno “ma potremmo sempre arrivare all’incrocio con Adenauerplatz e tornare indietro, anziché compiere un’inversione di marcia, per far prima e…”
Ma fu più o meno all’altezza del Cinema Paris che l’attenzione di David fu attirata da un’auto in sosta, che distava a qualche metro da loro, sulla stessa corsia di marcia.
Così accostò anch’egli, e restò a qualche passo dalla macchina, a cui, proprio in quell’istante si poggiava sul lato passeggero quella che poteva somigliare a una battona, dato l’abbigliamento succinto e luminoso, e sembrava che l’individuo che stesse alla guida, di cui Dave riconobbe all’istante la sagoma, le stesse parlando con un certo interesse.
James, intanto, distratto dalla brusca virata dell’amico sulla destra della carreggiata e dalla sosta improvvisa, si guardò intorno, e non trovando nulla di particolarmente attraente per giustificare quell’interruzione di marcia, gli rivolse uno sguardo interrogativo, accigliato nella solita maniera buffa, aggrottando la fronte.
Il suo miglior compagno di sbronze gli sembrava paralizzato.
Aveva abbandonato il volante, ma sedeva in posizione eretta, tremendamente teso, e gli occhi, già di per sé inquietanti perché di colore differente l’uno dall’altro, sembravano strabuzzare all’infuori, in un’espressione demoniaca, accentuata dai denti di forma irregolare che scoprì, in un ghigno terribile.
“Ehi, Dave tutto bene?”
David sollevò di scatto il braccio destro ed indicò con un indice sottile come un puntale l’auto che gli stava davanti.
“Non ti viene in mente nulla?”
James seguì la direzione del dito e, con enorme sgomento capì tutto.
“Cazzo, amico ma quello non è quel figlio di puttana di Hans?”
“Ah ah, puoi giurarci. Ricordi cosa ci ha combinato quel lurido bastardo?”
“E sarebbe davvero un problema, per me non ricordarmene, perché è vero, sono ubriaco ma non ancora del tutto rimbambito!”
David conosceva benissimo Hans Weber, non proprio come amico, ma come spacciatore.
Gliel’aveva fatta grossa ed ora aveva anche il coraggio di spassarsela in giro per le strade di lusso con i suoi soldi, lo stronzo.
“Calma, fratello. Potremmo sempre scendere e risolvere la questione in maniera diplomatica, tipo tirarlo fuori dalla macchina, massacrarlo di botte e lasciarlo mezzo morto a terra” propose il frangettone.
“Non se ne parla, quello lì gira armato, perché sa in che guaio si è cacciato e rischia grosso. Se lo fossimo noi, armati, magari…ma no, che cazzo dico? Non se ne parla, ti ripeto”.
“Sì, ma se lo prendessimo alla sprovvista non avrebbe il tempo di allungare una mano verso il cruscotto e farci la pelle”
“Magari ce l’ha addosso, la pistola”
“Scendiamo, allora” ripropose James “in due sarà più semplice, lo coglieremo alla sprovvista”
“Cazzo, amico, ma mi vedi? Peso al massimo cinquantacinque chili, sono distrutto dalle cagate che ho fatto e non sento un briciolo di forza per poter affrontare quello scimmione tedesco. Ma tu sai quanto è grosso, quello?”
“Allora lascia fare a me…”
“Tu da qui non ti muovi. Lascia fare a me, invece”
Prima che l’amico potesse controbattere, David inserì con forza la prima, si aggrappò letteralmente al volante e schizzò la Mercedes in avanti con un impeto mostruoso, con il motore da sei cilindri che urlava la sua potenza, seguito da uno stridere pauroso delle ruote posteriori sull’asfalto.
“EHI- EHI-EHI DAVE! MA CHE CAAAAZZZO VUOI FARE?! NOOOOOO!!!!” gridò James, e resosi conto della soluzione estrema dell’amico, sobbalzò all’indietro e con prontezza puntellò i piedi sul cruscotto di fronte per attutire l’urto.
L’auto si catapultò in avanti e percorse in pochi secondi la distanza che la separava dal bersaglio, una grossa Volvo 262 Heritage del ’75, con il voluminoso bagagliaio che si offriva in tutta la sua capienza all’assassina.
La prostituta, che per prima aveva intuito ciò che stava per accadere, si scostò subito dal finestrino e si allontanò di corsa sul marciapiede, inglobata tra la folla.
L’uomo all’interno della Volvo si voltò, ed un espressione di terrore mista a sorpresa gli si stampò sul viso.
Qualsiasi reazione di fuga gli fu inutile, perché la paura lo serrò sul sediolino.
L’elegante griglia della Mercedes, che ora somigliava a un ghigno demoniaco, si stampò con un rumore terribile di ferraglia al posteriore della Volvo, nel cui abitacolo Hans Weber, come un manichino inerme, fu proiettato con violenza verso il parabrezza, frantumandolo.
“AAAAAHHHHHHH!!!!!!!!!!!”
David sembrava sull’orlo del delirio.
Inserì la retromarcia, sempre con quell’espressione furiosa, e non sentiva né le grida della gente che aveva assistito al terribile incidente, né quelle terribili di Hans, né quelle di James, che ora tentava addirittura la fuga, cercando la manopola dello sportello che proprio non riusciva a trovare.
“Ma tu sei pazzo, TU SEI PAZZO!”
La griglia distrutta si disincagliò dal paraurti posteriore dell’auto di fronte con uno stridore di assicelle, pezzi di alluminio e plastica e vetro che si staccavano, si spezzavano e si sfregavano l’uno contro all’altro
Iniziò una retromarcia furiosa, fermandosi dopo appena qualche metro.
“FAMMI SCENDERE!”
Ma David ripartì, perché la missione che lo riguardava era molto più grande di ciò che già appariva in tutta la sua drammaticità.
In quel bersaglio incentrato sulla vettura dal posteriore semidistrutto vi aveva scorto tutto l’invalicabile muro che sovrastava di fronte alle sue decisioni o indecisioni, in un’età importante, con gli avvenimenti che tardavano a farsi sentire, con una responsabilità nei confronti della famiglia (perché era pur sempre una famiglia) da portare avanti, con la questione della tossicodipendenza che lo sfiancava, con l’alcolismo, con i vizi, con la musica che richiedeva un cambio di rotta, con i debiti da pagare, con le frustrazioni di non poter vivere un’esistenza serena.
Per tutto ciò dedicò il resto di quei minuti interminabili infierendo sull’auto di fronte.
Perché non contento, ogni urto era dedicato a ogni suo singolo problema, ed ogni volta che si schiantava contro quel bersaglio, era come se stesse affrontando fisicamente ognuno di essi con violenza, abbattendoli ad ogni ferita meccanica inferta, sbaragliandoli istintivamente nei ripetuti scontri.
La Mercedes, nonostante tutto, non demordeva, e dopo un periodo infinito in cui gli sembrò di aver ripetuto quel gesto terribile un milione di volte, svoltò sulla sinistra, ripartì di corsa e divorò il Kurfurstendamm, lasciandosi il disastro alle spalle, e James, quasi piagnucolante e tremendamente impaurito dalla tensione che non si decideva a scemare, riuscì solo ad intuire le strade che l’amico sull’orlo di un esaurimento nervoso stava percorrendo in maniera forsennata.
Si iniziavano a sentire le sirene della polizia in arrivo.
L’auto indemoniata, con il paraurti, i fari spenti e inutili e la griglia irriconoscibili arrivò all’ Hotel Gehrus in pochi minuti e le fu aperto l’accesso al garage solo perché il custode riconobbe il facoltoso cliente ma non la vettura, o almeno intuì che si fosse trattata della stessa che qualche ora prima aveva visto partire verso il centro.
E fu proprio mentre David si fermò alla sbarra che James trovò la giusta occasione per sgusciare via dall’abitacolo con una capriola e rendersi conto di trovarsi all’ingresso per le auto dell’hotel.
Tuttavia non abbandonò con lo sguardo la coda della coupé i cui fanalini posteriori illuminarono di rosso l’interno in penombra del garage e ripartì di scatto all’interno di esso, con l’immancabile stridore.
Perciò corse dentro, e con orrore si accorse che la vettura stava dirigendosi a velocità elevata verso la parete di fronte.
Si portò le mani alla testa e ricominciò ad urlare, proprio mentre era raggiunto dal custode che iniziava ad insospettirsi della violenza con cui l’auto aveva fatto il suo ingresso in garage.
Ma proprio quando tutto sembrava finisse in tragedia la Mercedes deviò poco prima dello schianto e scivolò lungo il perimetro sfiorando il muro, percorrendolo nella sua lunghezza, puntando stavolta verso la parete opposta e guadagnando velocità.
Poi, poco prima del possibile e prossimo impatto, la vettura deviò e ripeté la folle operazione finché, dopo infiniti tentativi tutti uguali si arrestò nel bel mezzo del garage e restò finalmente immobile, col motore spento, a corto di benzina.
I due spettatori, sicuri ormai di non correre alcun rischio corsero allarmati verso di essa e all’interno vi trovarono un uomo visibilmente denutrito, stanco e affaticato, col capo chino sul volante, coi capelli rosso chiaro, che ormai lasciavano intravedere il loro colore biondo naturale alle radici, che si spandevano su di esso, scosso da tremori nervosi, non si sa se per freddo o per tensione, mentre sobbalzava in ritmi irregolari dai singhiozzi e accompagnavano un pianto disperato.
James aprì lo sportello e lo abbracciò in maniera fraterna, mentre l’amico gli poggiava la testa sulla spalla a gli bagnava il tessuto con le sue lacrime.
“Jim, v-volevo f-farla finita ma n-non ci riuscivo, oh m-mio DDDIIOO!” riuscì a malapena a dire David tra i singhiozzi convulsi, che pian piano cominciavano a scemare, protetti dal calore della vicinanza di un amico, di un fratello, di chi forse era lì con lui per salvargli la vita.
“Signor Osterberg, vuole che chiami un’ambulanza?” s’intromise il custode
“La ringrazio, non si preoccupi” e poi, rivolto all’amico “è tutto finito adesso” gli sussurrò James, carezzandogli il capo “tirati su, ti prego”
Barcollarono insieme verso l’ascensore, accompagnati dallo sguardo preoccupato del funzionario dell’albergo, e sparirono dietro le porte automatiche.
Milano 1999
Oggi hai parlato troppo.
Quando la luce rossa intermittente destò i suoi pensieri, Andrea era ancora completamente assorbito da quella storia incredibile, che mai avrebbe immaginato.
I lampi a intervalli irregolari della luce significavano che qualcuno era davanti all’ingresso e stava premendo il pulsante che fungeva da campanello, ma che in realtà non emetteva alcun suono, ma soltanto un segnale di luce nella sala di regia.
Il CD ora stava trasmettendo l’ultima traccia, Subterraneans, e calcolando il tempo di ogni canzone, partendo da Be my wife e dal riascolto di Always crashing in the same car, Andrea stabilì che era lì da più di mezz’ora, ma gli era sembrata un’eternità.
La storia di quei due pazzi che conosceva bene solo attraverso i loro dischi, ma non troppo per gli episodi della loro vita privata, gli era parsa ai limiti della follia, e Berlino poi, a cui si era sempre sentito in qualche modo vicino, gli era sembrata ancora più affascinante, attraverso le parole di Marco.
Intontito dal racconto, dal fumo e dal torpore del vino assorbito a stomaco vuoto, Andrea si alzò faticosamente, con una smorfia, e si diresse verso l’ingresso ad aprire il doppio uscio.
Erano Sergio e Livio, e sembrava trasportassero qualcosa in alcuni sacchetti che pareva fungessero per cibo d’asporto.
“Allora, ragazze. Vogliamo farlo sapere a tutti che tra di voi c’è qualcosa?” scherzò Livio.
Sergio si limitò a grugnire un paio di volte.
Andrea li accompagnò nella penombra, verso la sala regia scarsamente illuminata, dove Marco sembrava immobile sulla sedia.
Mentre le ultime note dell’ultimo brano del disco sfumavano, si sollevò di scatto e proruppe in un saluto affettuoso: “Sergio, Livio, vi stavo giusto aspettando!”
“Veramente eravamo noi ad aspettare voi” sbottò quasi infastidito Sergio “ma ormai, vedo che tra noi è iniziata qualche rottura: brindisi separato” e dicendo ciò indicò i calici ormai vuoti poggiati sul tavolo della console.
“Ma tutt’altro, tutt’altro!” lo tranquillizzò Marco alzandosi, finalmente, e fece accomodare gli altri due componenti della band sulle sedia dove fino a poco prima erano seduti loro.
“Ho da raccontarvi una cosa” iniziò Marco
“Oddio, ora questo ricomincia!” si lamentò Andrea.
“Vabbè ragazzi, abbiamo pensato di portarvi la cena , dato che la cucina è chiusa a quest’ora” disse Livio poggiando i sacchetti sul tavolo.
“Grazie infinite…ed ora, ragazzi, ascoltatemi bene: ci sarebbe ancora un brano da inserire nella scaletta dell’album”
“Ma il disco è bello che finito!” quasi urlò Livio “stavamo appunto festeggiando”
“Ma no, ma no. E’ un’operazione semplice e si fa in un giorno” continuò Marco, e poi “aggiungeremo Always crashing in the same car, apoteosi della trilogia berlinese nella nostra trilogia”.
“Ma l’apoteosi è senza dubbio Heroes” corresse Sergio.
“Come no! Ma noi in scaletta abbiamo già quella e non avremmo il tempo per prepararcene un’altra, e poi Heroes la conoscono anche le pietre. Troppo scontata!”
“Sarà…” ribattè Sergio
“Ok, è un’idea niente male” accettò Livio “ma quando ci vedremo? Il calendario all’ingresso segnala che la sala è occupata già da domani. C’è scritto SOE e non so cosa significhi né che gruppo sia”
“Sta per Soerba” quasi rise Marco “lo studio è prenotato da me, ma ammesso che siate tutti d’accordo per domani, chiamo i ragazzi e disdico: capiranno”
“Sei un pazzo!”
Sergio sorrise e alzandosi gli poggiò ambedue le mani sulle piccole spalle.
“Vivosunamela” ribattè Marco “monta il set di batteria che ci divertiamo!”
Chateau d’Herouville, Pontoise, Francia 1976
Sound and Vision
David allungò a James un foglio su cui pareva ci fosse scritto un testo.
“Cos’è?”
“Leggi, Jim. Ti piacerà”
James lesse con curiosità l’elegante scrittura dell’amico.
A differenza sua, che aveva il dono di inventare al momento dell’incisione storie che poi avrebbero dato vita al testo, David preferiva concentrarsi in privato per scrivere le liriche delle canzoni.
Dopo qualche istante, James sollevò lo sguardo dal foglio e scrutò con i suoi occhi grandi e azzurri il ragazzo biondo che aveva davanti.
“Cacchio, Dave ma parla di quella sera a Berlino!”
“Già. Che ne dici di Always crashing in the same car?”
“Che poi corrisponde ad una metafora…Dave, ma è fichissimo, davvero!”
“Sulla musica che stavo eseguendo prima con la band”
“Lo immaginavo. Che disco, Dave. Che disco!”
Si abbracciarono.
Mtv Day, Bologna 1999
Chi mi ama non mi vuole correggere
Sul palco Marco ha scelto un abbigliamento in stile David Robert Jones nel 1976: una camicia bianca al cui collo c’è una cravatta larga e dalle fantasia geometriche demodé; sopra indossa una giacca nera di taglio stretto e pantaloni della stessa tinta molto larghi ma avvitati, in stile Seventies.
Porta ancora con orgoglio la sua capigliatura tinta di rosso.
Accorda la sua chitarra a dodici corde e poi ne prova il suono, assicurandosi che si senta bene nelle casse spia che gli stanno a terra, di fronte.
“Si sente?” chiede al pubblico, avvicinandosi al microfono.
“SIIIIIII!” gli si risponde in coro
“Facciamo un pezzo di Guccini?”
Qualcuno dal pubblico dice di no, qualcun altro non risponde.
Alcuni dicono di sì.
“Perché no? Non vi piace?” chiede Marco, che in realtà Guccini lo adora.
Livio, alla sua sinistra, veste un completo nero lucido comodo e si assicura che la pedaliera abbia il programma adatto al brano che stanno per eseguire, poi si sistema bene la chitarra e aspetta la conta per l’attacco.
Andrea, dietro alle tastiere, e col sax agganciato alla cinghia rossa simile a delle bretelle che gli circondano le spalle, indossa una camicia bianca, stranamente semplice, e i suoi capelli biondi sono un’esplosione di ciuffi lunghi arruffati.
Sergio, alla batteria, indossa occhiali da vista. Ha i capelli molto lunghi.
Indossa una semplice camicia nera.
Dopo l’ultima frase di Marco dà il tempo con un ritmo semplice, ed è rilassato, perché il brano inizia con lui da solo e gli altri possono seguirlo quando vogliono.
“Le mani tipo Radio ga-ga !” incita il pubblico Marco, e poi alza le braccia al cielo e batte le mani a tempo.
Anche Livio inizia a ripetere il gesto.
La folla li imita ed è un bell’effetto.
Marco li guarda per un po’, soddisfatto.
Poi, insieme, attaccano con il primo accordo e, il testo sussurrato, appena cantato e sofferto, che ricorda una serata di due amici all’insegna del delirio e della disperazione di ventitré anni prima a Berlino, comincia appena dopo.
E’ bello trasmettere liberamente le proprie emozioni a chi ti ama.
Carmine Maffei
12- 23 maggio 2018