Ho “scoperto” questo libro per puro caso alla Libreria Fernandez di Viterbo. Mi soffermo sulla quarta di copertina che preannuncia una storia di quelle che piacciono a me, quelle dei piccoli paesi, quelle dei luoghi talmente sconosciuti da diventare inesistenti, da trasformare l’ignoranza dei molti in un destino quasi ontologico. Poi sfoglio un po’ e arrivo all’altra bandella di copertina e resto quasi sorpresa dalla data di nascita dell’autore di questo Gli 80 di Camporammaglia: Valerio Valentini – leggo – nato a L’Aquila nel 1991. Faccio un rapido calcolo e lo ripeto, perché non è mica così facile “comprendere” che un ragazzo di neanche ventotto anni possa aver scritto qualcosa che parli (anche ma non solo) del terremoto che ferì l’Abruzzo nel 2009.
E ogni più vaga perplessità viene immediatamente spazzata via fin dalla lettura delle prime righe. Perché questo libro è davvero un miracolo di scrittura. Ha ragione Elio Giunta a ravvisare più di qualche somiglianza con Sciascia. Ciò che è certo è che Valerio Valetini usa le parole con uno stile che sembra quasi novecentesco e che fa capire quanto sia uomo di belle letture prima ancora che di belle scritture. Il suo esordio narrativo è di quelli che andrebbero urlati dai balconi, esaltati mentre si va a fare la spesa o mentre si butta un po’ di tempo dentro un bar. Insomma, nella vita di ogni giorno e non solo sulle riviste letterarie.
Valerio Valentini, con questo Gli 80 di Camporammaglia, ci porta dentro una storia corale in cui il paesino abruzzese di Collemare viene qui traslato in Camporammaglia. Uno dei tanti piccoli borghi d’Abruzzo in cui gli Appennini hanno disegnato non solo la geografia fisica ma anche, e soprattutto, quella sociale e comunitaria. Da subito è l’isolamento quello che ci viene messo davanti agli occhi, raccontata con le parole della madre che, per misurarlo e renderlo concreto, usava dire che il paese stava “Un quarto d’ora di macchina per comprare un chilo di sale.” E bastano già queste poche parole per trovarci immersi in pagine che sanno davvero di una letteratura che arriva da lontano.
Camporammaglia è un paese abitato da ottanta anime e che ci viene raccontato a ritroso nel tempo. Un Paese come tanti in cui l’isolamento è l’altra faccia della medaglia, causa e conseguenza, della diffidenza. A Camporammaglia ogni novità, che sia il prolungamento della Statale o l’arrivo della televisione, viene accolto con quel misto di paura, resistenza e sottaciuta curiosità, tipico dei piccoli paesi in cui, ci si attacca alla propria diversità come ad un totem, ad un feticcio, pur facendolo nel tentativo di conservare una sorta di identità. E Valentini è straordinario nel raccontare proprio questo aspetto, riuscendo a farlo quasi più da antropologo che da scrittore. O meglio, unendo la sua prosa semplice, perché “lavorata”, alla più totale assenza di giudizio. Non vi è arcadia, non vi è idealizzazione del modo di vivere “del tempo che fu” ma neanche condanna verso il modo in cui i cambiamenti sono arrivati anche qui. E che, a cambiare maggiormente la fisionomia non solo urbanistica, ma anche sociale del paese, sia stato ad un certo punto un evento quanto mai “esterno” come un terremoto, nulla cambia nell’approccio dello scrittore. Che non muore di nostalgia ma racconta, con una maturità davvero sorprendente per un ragazzo così giovane, riti e miti di quella piccola comunità in cui esistevano solo tre cognomi, un Circolo, riti, miti e feticci del passato, inevitabilmente “sconfinati” in altrettanti feticci delle modernità, qualunque cosa essa significhi.
Vizi e virtù degli abitanti di Camporammaglia che Valentini racconta non con la presunta superiorità di chi poi ha visto il mondo di fuori, ma con il distacco-partecipe di chi quei luoghi li abitati e vissuti traendone la sua storia, senza disconoscerla pur mettendola in discussione. E allora, proprio per questa sua capacità di sguardo, può arrivare a scrivere frasi come questa: “Gioacchino Marinelli aveva una propensione spiccata a imporre la propria autorevolezza di fronte ai suoi conoscenti. A farlo diventare una sorta di sovrintendente agli affari pubblici di Camporammaglia (che poi è come dire: a tutti gli affari di Camporammaglia) avevano contribuito, negli anni, un certo suo gusto per l’oratoria […] oltre ovviamente a quei vantaggi che comporta essere avvocato in un paesino di campagna, dove riuscire a dare l’impressione di sapere, di conoscere, o anche soltanto di poter sapere e di poter conoscere, fa acquistare maggiore prestigio, e maggiore rispetto, di quanto non ne procurino il sapere e il conoscere affettivi.” Valentini conosce e racconta come un romanzo, con questa e altre pagine, il lessico familiare del paese ma anche il suo teatro umano. Facendolo divenire, proprio perché privo di giudizio, una specie di emblema/metafora di altri piccoli paesi d’Italia. Riuscendo a costruire, usando parole sue, “una sorta di mitologia paesana”. In cui la paura e la morte, arrivata con il terremoto, sono accolta come altre “novità” rispetto al procedere consolidato della vita del borgo: “Ma forse, se a questi episodi, e al loro racconto più o meno verosimile, ci si è affezionati, dev’essere accaduto perché in fondo ciascuno di essi testimonia di un ceto modo di reagire al medesimo senso di annichilimento.” Che è più o meno lo stesso provocato da ogni cambiamento, anche quello sociale conseguenza inevitabile dello scollamento di cultura e tradizioni davanti alle sirene della modernità che arriva da fuori, fosse anche solo da L’Aquila, così vicina e così lontana: “L’orgoglio montanaro della rinuncia – quella rudezza, quell’austerità tanto a lungo rivendicate dalla gente di questi paesini come un proprio nobile modo di stare al mondo – al momento della prova del confronto ravvicinato col dolce superfluo della modernità, semplicemente non ha retto. Quegli agi così vituperati, divenuti appena meno irraggiungibili, appena più alla portata delle tasche dei camporammagliesi e dei loro simili, si sono rivelate tentazioni irresistibili.”
E così anche il racconto dei giorni, dei mesi e degli anni seguenti al terremoto diventano il pretesto narrativo per raccontare, più che il terremoto in sé, le dinamiche umane con cui quella tragedia è stata “accolta” e vissuta. Un meraviglioso romanzo corale in cui all’antropologia dei margini si aggiunge una prova da grande scrittore che racconta contraddizioni e sentimenti senza giudicarli buoni o cattivi, meschini o nobili.
Storie di questo mondo
Narrativa italiana
Laterza
2018
139