Stephen King lo ha definito “uno dei più grandi romanzi americani del ventesimo secolo, degno di stare fra opere come Morte di un commesso viaggiatore e Una tragedia americana.” Tra i suoi estimatori anche un altro grande come Kurt Vonnegut. Stiamo parlando di Il termine della notte e di John D. MacDonald. Molti di noi lo hanno conosciuto per la riduzione cinematografica del suo famoso The Executioners, portato sugli schermi da Martin Scorsese con il titolo di Cape Fear, a sua volta rifacimento del precedente capolavoro interpretato da Robert Mitchum. Questo Il termine della notte è un libro che colpisce duro, attraverso una prosa pulita e un ritmo congegnato in maniera perfetta per raccontare una storia ma anche tutta l’ipocrisia e il male oscuro dell’America.
Il termine della notte, pubblicato sei anni prima del celeberrimo A sangue freddo, ricorda molto, per rigore e capacità narrativa, il bellissimo Compulsion di Meyer Levin, strepitosa ricostruzione “romanzata” di un fatto di cronaca realmente accaduto. MacDonald racconta sì un’invenzione letteraria ma lo fa con una precisione e una ricerca che rendono queste pagine una cronaca verosimile del male. Perché di questo si tratta.
Attraverso le voci di un secondino, di un avvocato e di un condannato a morte veniamo letteralmente trascinati nella “banalità del male”, nella scia di sangue lasciata da una banda composta da tre uomini e una donna che attraversano l’America compiendo furti, rapimenti, stupri e uccisioni senza alcun motivo che non sia la più cieca, e per questo ancor più incomprensibile, “banale crudeltà”. Una inevitabile discesa su un piano inclinato che inizia ad inclinarsi senza nemmeno un vero motivo.
Un libro che denuncia, senza neanche denunciare volutamente, un intero sistema di valori, di ipocrisie, di vizi privati e pubbliche virtù che sono diventati il pane quotidiano di un’America bisognosa di redimere dopo avere stritolato. Senza l’empatia a volte morbosa di Truman Capote in A sangue freddo, MacDonald riesce ad entrare nella testa di un criminale sbattendocene in faccia la “normalità” che, in un istante preciso, diventa mostruosa. E così facendo, mette anche in luce la malattia del gossip e del perbenismo che trasforma tutto in chiacchiere da cocktail ma anche il nostro essere affascinati da tutto ciò che è cronaca nera. Come se non ci riguardasse. Eppure c’è una sottile contiguità che non può consentire a nessuno di considerarsi immune dai “luoghi oscuri”. E infatti, un brano del libro ci dice:”Tutti noi, ognuno di noi, camminiamo molto vicini alle ombre, a strani luoghi oscuri, ogni giorno della nostra vita. Nessun uomo si trova in un posto completamente sicuro. Quindi è un segno di pericolosa spavalderia affermare di essere immuni. Nessuno può dire quando un evento casuale, una pura coincidenza, possono incidere su una persona quel tanto che basta per far sì che non si trovi più in un posto sicuro, e cominci così a camminare nell’ombra, verso cose sconosciute che sono sempre state lì, in attesa di divorarlo.”
Con il ritmo serrato e teso di un grande thriller, questo Il termine della notte è un monito, uno schiaffo in faccia alle nostre certezze da brave persone affascinate però dal male, quando sono gli altri a compierlo. Come fosse tutto un gigantesco cinema che siamo certi di guardare soltanto, senza sporcarci le mani.
Come scrive puntualmente e in modo preciso Nicola Manupelli che di questo libro è il curatore e il traduttore: “ […] il romanzo di MacDonald ha la medesima attenzione alle condizioni dell’uomo e a come una mente possa deragliare. Come Jim Thompson, è un’indagine sul male. Fa parlare un condannato a morte, un assassino, e lo fa ragionare, gli fa spiegare che cosa stava cercando nella propria pista di sangue. Lo fa parlare con noi lettori. E ci chiede continuamente: perché? E così graffia lentamente le nostre sicurezze.”
Noir, thriller
Mattioli 1885
2018
283