Epica stracciona è stato definito questo 108 Metri. The new working class hero di Alberto Prunetti. Definizione a cui si potrebbe aggiungere quella di epopea del proletariato, all over the world. Un po’ Irvine Welsh, un po’ Ken Loach, un po’ Budda delle periferie, Alberto Prunetti ci consegna una meravigliosa elegia proletaria che spazza via tutta la retorica dei cervelli in fuga. E ci ricorda un concetto semplice, cancellato dallo story telling della flessibilità, che il proletariato è uguale dappertutto, come inevitabile deriva di quella globalizzazione di cui, forse, ancora non abbiamo afferrato la potenza devastante. Ma in questo struggente, ironico e amaro 108 Metri, “il proletariato” diventano i proletari. E la differenza è semplicemente un abisso. Le storie di questa rocambolesca e umanissima armata Brancaleone di lavoratori di cessi e cucine inglesi, emigrati da dovunque nella swinging Britain, sono storie di uomini e donne che non rientrano nelle statistiche della mobilità lavorativa, che trovano e vivono una solidarietà di classe e umanità. Raccontandoci che un emigrato resta tale, da qualunque parte arrivi.
Sono storie di eroi della classe lavoratrice, raccontate con brio, ironia e amore, dallo stesso autore che, in Inghilterra, ci ha vissuto un anno e mezzo, non andando però a ingrossare il falso mito del “cambiare vita” cambiando cielo. Tra gestori di ristoranti finto italiani, ristoranti italiani davvero anche nell’utilizzo del lavoro nero, grandi magazzini, pub e risse, emerge una umanità sottomessa solo per l’occhio del padrone ma, in realtà, portatrice di una dignità e una generosità che scavalca differenze geografiche e linguistiche.
La voce narrante si fa erede e testimone di una lotta moderna che non è diversa da quella degli operai dell’altoforno di Piombino, rappresentata dalla bellissima figura di Renato, padre del protagonista, disegnato con un amore che va ben al di là dell’amore filiale per abbracciare quello verso tutta una cultura che è lavoro e generosità verso la vita tutta intera. Una sorta di Spoon River narrata da chi non si è chiuso nella torre d’avorio dello studio e della cultura ma ha fatto di essi un modo per raccontare e non rinnegare. Ce lo dice, Prunetti, nei ringraziamenti: “Ringrazio di cuore i cessi di Bristol e le cucine e le mense scolastiche del Dorset per la writing fellowship che mi hanno gentilmente accordato. Senza quel sostegno a paga sindacale minima, questo libro working class non sarebbe mai stato scritto”.
Nessun passatismo, nessuna visione romantica fuori dal tempo. Questo 108 Metri è un monito alla solidarietà, oggi più urgente che mai, nella consapevolezza che la working class non può e non deve esplodere in “un milione di piccoli pezzi” per non diventare carne da macello funzionale al turbocapitalismo: “[…] E quando mi troverò nel fango, triste come un altoforno spento, con le dita attaccate agli inguini strizzati o senza fiato per una pallonata della vita nello stomaco, coi miei sogni sconvolti o crollati, nel vento e nella pioggia, saprò che mi tenderete una mano per dirmi: tranquillo, è il mestiere che entra. Saprò che mai camminerò solo.”
Non vi è differenza tra gli operai morti di amianto e fumi tossici, come il padre Renato, e i lavoratori che espatriano per lavorare nei cessi, che nulla hanno a che fare con gli Expact, come vengono narrati dai tanti siti che distorcono la realtà promettendo miracoli non emigrando, parola che fa paura, ma espatriando. Ed è questo il filo rosso sotteso per tutto questo meraviglioso libro. Dalla partenza per il paese in cui aleggia ancora il fantasma/spettro della Thatcher, fino al ritorno in quella terra di piombo e ferro (evocata anche nella toponomastica, come ci ricorda l’autore, Piombino, Portoferraio) in cui il lavoro non c’è più.
Storie di questo mondo
Narrazioni contemporanee
Laterza
2018
133