«E nel momento in cui gli italiani, questi mostri della geometria che si ispirano agli studi di Leonardo o all’architettura neoclassica, si rendono contro che l’intrusione, tutta arabeschi, del Pibe de oro crea spazio ai suoi compagni di squadra, Maradona fa ancora un passo, colpisce la palla e scivolando a terra la caccia nella rete di Galli, uno che di solito non ha bisogno di spostarsi perché gioca con righello e compasso». In questo scorcio mozzafiato – che descrive il gran gol di Diego Armando Maradona all’Italia durante i campionati del Mondo di Messico ’86 – è racchiusa la fine arte del ricamo di Vladimir Dimitrijević (1934-2011), scrittore serbo refrattario alle giocate letterarie troppo facili. Forse perché, conscio del suo straordinario talento, amava catturare i lettori con i suoi numeri mirabolanti su carta, che, ancora oggi, rimangono unici nel loro genere. Come capitava a Diego, «capace di sollevare la palla con un leggero movimento della punta del piede che nessuno, fino ad ora, è riuscito ad imitare alla perfezione».
Di calcio si parla costantemente e da anni fioccano pile di volumi che pretendono di raccontarlo e radiografarlo. Ma pochi scrittori sono riusciti a esplorarne il mistero con l’ardore poetico di Dimitrijević, che negli anni Cinquanta aveva abbandonato la Jugoslavia per cercare fortuna in Svizzera, portando con sé i ricordi più remoti di un’infanzia passata con la krpenjaća (la palla di tela e stracci) tra i piedi e di un calcio in cui la televisione fa spesso la parte dell’intruso.
A quasi vent’anni dalla prima edizione, La vita è un pallone rotondo (proposto in Italia da Adelphi) si conferma un classico che resiste all’interno degli scaffali perché propone una scrittura che raggiunge vette vertiginose e riflessioni di sconcertante attualità. A partire da quella che, più di ogni altra, costituisce la struttura portante dell’intera narrazione: il calcio è uno sport imprevedibile ed estremamente essenziale; può essere praticato ovunque, sopportare gli strumenti più rudimentali, vivere di surrogati che non ne alterano la magia. Ma, soprattutto, è l’unico gioco in grado di restituire alla gamba la sua nobiltà, preso com’è a incensare le opere più raffinate del «piede pensante». Quello dei calciatori veri, dotati di un talento innato che li distingue dai semplici giocolieri e che fa rima con l’eleganza dei grandi scrittori. Perché per Dimitrijević calcio e letteratura sono strettamente connessi: «Il modo in cui uno scrittore colloca una virgola o un aggettivo, il modo in cui percepisce la propria musica, il respiro della frase, tutto ciò si ritrova in questo magico gioco».
È a partire da queste considerazioni preliminari che la chiacchierata coltissima di Dimitrijević si dipana trattando gli argomenti più disparati (dalla nascita del calcio totale in Olanda alle gesta della sua Jugoslavia; dal primo catenaccio di Helenio Herrera, alla solitudine filosofica del portiere, senza trascurare l’esegesi del calcio danzato di Garrincha, che aveva fatto del suo difetto fisico un’arma formidabile) e intrecciandosi ad alcune istantanee del suo vissuto, arrampicato a un solidissimo corpus di storie ereditato da un’antichissima tradizione orale che poteva annoverare i suoi aedi. Come Mate, «muratore e lettore vorace», che si ergeva ad archivio vivente dello Hajduk Spalato, squadra della quale era tifosissimo, e che dopo ogni partita regalava alla sua folla improvvisata e plaudente «i sospiri che sono alla base della creazione del mito». Un mito che la televisione, schiava della simultaneità e dell’immagine, ha contribuito ad appiattire: «Ci hanno portato via la creazione e per ciò stesso un parte della creazione. Il racconto è stato ucciso, sostituito da una fibrillazione di fatti salienti e rimarchevoli, ed è come se avessimo sostituito il cuore con il tracciato dell’elettrocardiogramma», annota amaramente Dimitrijević ripercorrendo la scia fangosa dei ricordi della sua Belgrado e aggrappandosi all’impertinenza artistica di Maradona, che è superiore a tutti gli altri perché, rifiutando le buone maniere, non si accontenta di essere un epigono di Paul Valéry.
Giuseppe Di Matteo
Piccola Biblioteca Adelphi
Saggistica, calcio
Adelphi
2000
146