La funzione della fotografia sta nell’essere mediazione tra l’istante e il ricordo, nell’insufflare un’illusione di eternità su un supporto deperibile. Imbalsamare la vita significa sottrarla al deperimento naturale e consegnarla ad un tempo privo di moto, come il djet degli antichi egizi. La fotografia fissa il momento e, nelle intenzioni, lo preserva per sempre. La promessa cela però un inganno. Fin dall’origine dello scatto, il soggetto è esposto al rischio della marcescenza della memoria. Non di rado, le fotografie, soprattutto quelle realizzate in ambito privato, vanno perdute. Rami familiari si estinguono. Case passano di proprietà. Cantine e soffitte vengono svuotate. I rigattieri acquistano interi album, per qualche spicciolo, da nuovi inquilini perfettamente estranei al contesto in cui quelle immagini hanno avuto origine. E’ frequente che quelle foto, benché offerte sulle bancarelle dei mercatini rionali, non le desideri nessuno. Il destino malevolo le spinge lungo la china dell’oblio e, prosaicamente, le approssima alla discarica. Qui, si manifesta una sproporzione tragica tra il valore assegnato in partenza alle foto, e custodito, si suppone, per anni, e la svalutazione attuale. Il digitale prima, e i social network poi, hanno solo esasperato questa vena di oscenità nascosta nell’arte fotografica. L’esibizione di sé, o di altri, è un’invocazione, certo involontaria, al dileguarsi dell’esistenza.
Lea Barletti, attrice e performer, ha scritto Il libro dei dispersi e dei ritornati (Musicaos editore) ispirandosi a foto di sconosciuti, scovate presso un robivecchi di Berlino, sua città di residenza, “in un pomeriggio invernale di qualche anno fa… ero incapace di staccarmi, letteralmente inchiodata: dal momento che avevo cominciato, dovevo continuare a guardarle”. Lea Barletti fruga nel baule e ne seleziona tre che ritraggono la medesima donna. Un compleanno festeggiato in un bar, una discesa da uno scivolo (un uomo la cinge e la tiene stretta con le sue braccia, da dietro), una puntata al tirassegno (un uomo, forse lo stesso, osserva il colpo, in piedi alle sue spalle). “Ho scritto il primo racconto partendo da quelle tre immagini”. Il racconto si intitola Paesaggio. L’autrice torna dal medesimo rigattiere e compra altre foto, per un totale di dodici, più una radiografia. Foto di gruppo, foto di bambini in pose spontanee, foto di famiglie riunite, foto di luoghi immortalati in campo lungo e di ragazze ritratte di spalle, foto di volti ritagliati nella luce.
«La luce è la prima idealità, il primo Sé della natura. Nella luce la natura per la prima volta comincia a diventare soggettiva» (G.W.F. Hegel, Estetica, Parte III, Einaudi)
Attorno a queste attestazioni di esistenze che furono, che sono, l’autrice tesse le sue narrazioni, rispondendo a un’esigenza interiore, a un debito di riconoscenza verso la stirpe degli smarriti, dei naufraghi, dei dimenticati. E’ una sfida all’inevitabilità del margine, alla cesura imposta allo sguardo.
«Come pensare l’esterno di un testo? Come qualcosa di più o come qualcosa di meno del suo proprio margine?» (Jacques Derrida, Margini, Einaudi)
Qualcosa segue, qualcosa anticipa lo scatto. L’ambiente che incornicia i soggetti è tagliato. Tempo e spazio, troncati, sollecitano l’immaginazione. Molte altre foto, alternative, erano possibili, plausibili, disponibili alla selezione. La ricostruzione delle vite è un valzer di contingenze. Carlo D’Amicis, nella postfazione, esclude, con piena ragione, che si possa trattare di un’operazione letteraria assimilabile a un’attività investigativa: “troppi indizi si sono già dispersi, i testimoni nel frattempo sono diventati colpevoli, i colpevoli hanno perso la memoria dei loro delitti, e altri personaggi chiave sono perfino spariti dalla cornice nella quale erano rinchiusi”. Alta ambizione, quella della letteratura, qui ben rappresentata da un tentativo nobile e disperato: far rivivere uomini e donne nella fucina creativa della finzione, optando non per la ricerca di una verità tout-court, esclusa a priori dalle circostanze, ma per una verosimiglianza basata su impressioni, suggestioni, sull’esame empatico dei dettagli. Ogni racconto si regge su consonanze tra il sé, il vissuto dell’autrice-attrice, e le sensazioni suscitate dalla visione. La risonanza interiore, puntuale, causata dalle foto ed il mondo esteriore, eccedente i confini della porzione inquadrata, si sposano in un dialogo produttivo. Ne scaturisce una scrittura performativa, anti-intellettualistica, fenomenologica, a suo modo poetica e scientifica.
Poetica e scientifica come può essere la prosa di Peter Handke, punto di riferimento, nemmeno tanto velato, di Lea Barletti. Non l’unico maestro evocato, forse il più evidente. Poetica, perché il linguaggio non descrive tanto l’accadimento da un altrove esotico, inappellabile, astratto, quanto, piuttosto, scrive, dall’interno, l’attuarsi dei fenomeni: lo sbocciare dei pensieri, la presa di coscienza del dolore, della gioia, della delusione, il filo delle relazioni perdute e ritrovate, i fantasmi di gioventù, le fratture, la forma dell’esistenza declinata in una collana di modi ed attributi legati ad un centro di attrazione, la fotografia salvata e svelata, appunto. Scientifica, perché nel dipanarsi dei periodi, la scrittura dell’autrice anela ad un approdo concreto. La meta consiste nel condurre le figure umane sul terrapieno del fondamento, laddove il grund è proprio il linguaggio poetante, apportatore di senso, di spessore, di coerenza. La sfida della scrittrice sta nell’afferrare le storie sul bordo del loro svanire e riscattarle, rendendole eticamente credibili, universali, dignitose, libere, parte di noi, o meglio, compartecipi della nostra sfera vitale (e noi della loro). “Io sono la luna e il cane pastore del ritorno a casa, e i fari delle macchine, e i denti sono e la carne che mordono e il miele che scorre, e sanguino in una lingua sconosciuta di segni e versi inumani: non so dimenticare, e allora sono il racconto, e la ferita, e i suoi lembi che compongo e spalanco per guardarci dentro: ma il nostro tempo non è ancora venuto, e allora sono la lingua che mi mordo e poi mi pento, sono il tormento dello scivolare a tasso zero, la vertigine del vuoto a rendere, del brivido formato famiglia, sono il tappetino per non strappare i calzoni e la gonna, sono il precipitare col salvagente, sono la dispersa in mare che ritorna e prepara il caffè”.
La scrittura di Lea Barletti si espande in disegno vorticoso, diviene florilegio ossessivo sulla pagina. Lo sguardo dell’autrice individua il campo di forze presente in ogni singola foto selezionata e quindi lo sollecita, con un’attitudine simile a quella dell’alchimista certo di poter estrarre l’oro dalla pietra. Il demiurgo-narratore modella la lingua dei protagonisti e la inchioda ad un io, prima persona non scissa dal mondo, duale, inclusiva, coscienza singola sfidante il lettore. La narrazione si consolida in undici racconti che potrebbero essere undici monologhi teatrali, undici stralci di diario in sé compiuti, benché affetti da dolorosa, necessaria incompletezza. Dai misteri dell’essere prende grazia e vigore la parola, che risalta, minacciosa e miracolosa, nei suoi esiti migliori, come può essere il volo di un calabrone. “Non si arrabbi signor maestro, io se non parlo non è perché non voglio parlare, ma perché mi si è congelata la lingua, sta lì ferma come una fettina di vitello nel congelatore e non si vuole muovere. Che quella che adesso sente è la mia voce soltanto, non sono io che parlo, non è la mia lingua, è la mia voce congelata che esce dal mio corpo in via di congelamento, perché dopo la lingua anche tutto il resto del corpo si sta congelando, ora capisco: anche le mani, e i piedi, se posso ancora muoverli, è vero, li muovo ancora, però non li sento più, so che si muovono perché li vedo muoversi ma non li sento” (Il bambino congelato).
Lea Barletti, da nota biografica, appronta i suoi labirinti letterari cimentandosi sia nel tedesco che nell’italiano. Romana di origini salentine, sperimenta nel labor limae della scrittura la sua condizione di persona sospesa tra mondi (non si è mai sentita a casa in Italia, non si sente a casa in Germania, ma almeno adesso è ufficialmente un’immigrata). Sospensione, distacco dal consueto, revoca consapevole del modo-di-dire abituale, messa in questione radicale dei canoni prefissati, naturalistici, cronachistici: intento lucidamente perseguito nel racconto Crema al limone, ripresa narrativa di una violenza sessuale, non banale denuncia, da rotocalco televisivo pomeridiano, bensì scavo fenomenologico di una sofferenza patita, decostruzione del fatto per ricostruirlo ex-novo, su un crinale inedito, irripetibile, idiografico, non manipolabile a fini scandalistici. Contro l’esistente, attorno all’esistente, oltre l’esistente. Cosa vi è di più oggettivo di una radiografia? Eppure, proprio nello scatto freddo, nella grammatica medicale all’apparenza univoca, unidirezionale, si insinua il demone delle possibilità, il pungolo delle incertezze, dei giochi, dell’infinito in attesa di conferma, di negazione, di adesione. “Già da tempo ogni giorno al mattino il mio cuscino è zuppo del nero liquido delle mie gallerie segrete, e strizzo il mio pigiama nel lavandino e scollo le palpebre nell’acido borico, e piego il mio bel collo a destra e sinistra scrocchiando le vertebre: dall’ultima radiografia risulta che le ultime tre sono schiacciate. Ma lei scusi che lavoro fa, il facchino ai mercati generali, mi chiedeva stupito il dottore. Io? Ma no, si figuri, io faccio la giraffa allo zoo, non è certo un lavoro pesante, cammino elegante di qua e di là nel recinto, non è mai venuto a vedermi? Le posso lasciare un biglietto omaggio per domenica, anzi tre, così può portare sua moglie e suo figlio” (Lezione d’anatomia).
Ricchezza e potenza del linguaggio. In principio era il verbo. Il principio è adesso.
Alessandro Vergari
(Lea Barletti, Libro dei dispersi e dei ritornati, Musicaos editore, 2018)
Racconti
Musicaos Editore
2018
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