Ogni volta che passo da Feltrinelli a Salerno e incontro Maurizio, che in quella libreria ci lavora da oltre venti anni, è veramente una festa. Maurizio è un lettore forte e soprattutto ha una buona memoria. Ci avventuriamo sempre in conversazioni interessanti.
Nelle nostre quasi quotidiane chiacchierate vengono spesso fuori scrittori che oggi più nessuno legge e che sono stati ingiustamente dimenticati.
L’ultima volta che ci siamo incontrati, mentre si chiacchierava delle ultime letture, come sempre il discorso è andato al passato e citando scrittori dimenticati è venuto fuori il nome di Michele Prisco.
Tra i più prolifici e interessanti scrittori del nostro secondo Novecento, Prisco è nato a Torre Annunziata il 18 gennaio 1920 ed è morto nel 2003 a Napoli.
Nel 1949 esordì con La provincia addormentata e immediatamente fu apprezzato dal pubblico e dalla critica. L’anno successivo pubblicò Gli eredi del vento.
In seguito arrivarono altri romanzi notevoli tra cui La dama in piazza (1961), Una spirale di nebbia (1966 con cui vinse il premio Strega), I cieli della sera (1970), Lo specchio cieco ( 1984).
Michele Prisco nei suoi libri è riuscito come pochi a costruire una tessitura psicologica, forte e interiore intorno a personaggi tipici di una società borghese, puntando sempre sui dilemmi etici e morali.
«Di solito i miei personaggi non sono descritti nel loro aspetto esteriore se non raramente. Essi vivono per me come persone reali. Io li vedo nella loro realtà iconografica e cerco solo di capirli nella loro identità interiore prima di stabilire in anticipo come si comporteranno in una certa situazione, per scoprire che si sono comportati magari in modo diverso di come avrei anche potuto immaginare».
Prisco è stato un testimone del suo tempo e questo tempo finisce sempre per specchiarsi nei suoi libri. Tutto quello che ha scritto – soprattutto inventando trame- scaturisce da quello che lo scrittore ha visto, osservando e frequentando quotidianamente il reale.
In modo particolare quando nei sui libri racconta Napoli. «È una Napoli mediata, filtrata. Sono un narratore di una certa provincia, di una Napoli particolare. Ho la sensazione che Napoli sia una città poco raccontabile, a meno che non si talloni la cronaca, per cui si finisce con lo scrivere un libro che non regge il passo con la realtà. Quando ho scritto La dama di piazza, tra il 1958 ed il 1961, che è la Napoli storicizzata, ancora conservava una sua struttura, una sua fisionomia, una sua identità. Vivere a Napoli oggi è molto triste, questa città, non dico che uno deve conquistarsi ogni giorno, ma con la quale si è in polemica quasi ogni giorno. Di questa necessità ad un certo momento di svicolare, forse sarà vigliaccheria, di non parlare di questa Napoli così come è oggi. Ed è una cosa amara».
Parole forti che ancora oggi hanno un senso se guardiamo Napoli alla luce delle sue contraddizioni attuali.
Michele Prisco è stato un narratore che non ha mai rinunciato alla testimonianza. In ogni suo libro si è rivelato un grande conoscitore non solo della borghesia napoletana ma anche dei suoi simili.
In tutte le sue storie prevale il punto di vista di osservatore fine delle debolezze e delle fragilità del genere umano.
Prisco, soprattutto nel dibattito intellettuale degli anni sessanta sulle funzioni dei generi letterari, si è sempre speso in difesa del romanzo, inteso non come mero genere letterario, ma forma – valore dell’umanesimo, struttura antropologica dell’immaginario chiamata a rappresentare le ragioni dell’uomo moderno.
Uno scrittore autentico che intendeva la letteratura come invenzione e messa in salvo della «favola della vita».
È un vero peccato che i suoi libri non siano più pubblicati. Se andando per bancarelle trovate qualche romanzo di Michele Prisco, non esitate e portatevelo via. Scrittori così oggi non se ne vedono più.