Al romanzo Caina si è ispirato l’omonimo film di Amatucci, ora candidato agli Oscar
Intervista esclusiva al suo autore e sceneggiatore: Davide Morganti
La notizia è di qualche giorno fa: Caina, il film del regista Stefano Amatucci (Un posto al sole, La squadra) è tra i lungometraggi italiani candidati agli Oscar.
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Davide Morganti, che è anche sceneggiatore del film, Caina è una pellicola cruda, che parla di immigrazione, dei loschi interessi che la riguardano, di xenofobia e del consequenziale razzismo. La protagonista, interpretata magistralmente da Luisa Amatucci, sorella del regista, è un personaggio dark terribile, che odia gli immigrati, una “trovacadaveri”, che specula i propri interessi guadagnando su ogni corpo senza vita che il mare ha depositato a riva. L’unico intoppo resta la sua attrazione verso un extracomunitario, il magrebino Nahiri, interpretato da Helmi Dridi, che la indurrà a diversi tentennamenti e infine alla vendetta.
Affascinati dall’inusuale ambientazione di una realtà parallela e possibile, ci si spinge anche alla lettura del romanzo d’ispirazione di Davide Morganti, uscito per Fandango Libri nel 2009.
Nel libro, in un’epoca moderna, attualissima, sprezzante ma indistinta, Vincenza esercita un mestiere, insolito forse per chi è abituato ad un confronto scontato e perbenista sociale (quindi ignaro), ma possibile per chi, nel quotidiano, è abituato a scontrarsi e a convivere col drammatico.
Vincenza uccide per lavoro e lo fa con freddezza, precisione, incredibili tenacia e sfrontatezza, nei cui meandri intellettivi si evidenziano altisonanti elucubrazioni vendicative per conto di un clan malavitoso partenopeo, che affonda radici nella propria terra e dirama in intrighi internazionali.
A capo di tutto ciò don Ciro controlla che tutti si comportino in maniera rispettosa, che non lascino trapelar nulla, che non “cantino”, che non si possano atteggiare a boss improvvisati, che soprattutto non si aggreghino ai Race, associazione camorristica rivale.
Chi non rispetta questi limiti dovrà scontrarsi con Vincenza, che uccide, spesso a sangue freddo, ma che preferisce sempre un confronto diretto e verbale con le future vittime.
Questa volta però il cadavere rinvenuto non è un risultato dei suoi omicidi: Rocco era suo padre e gli scagnozzi le confidano che ad ucciderlo sia stato proprio il suo amante, Eihab, egiziano fascinoso, padre della creatura che porta in grembo…e braccio destro di don Ciro.
La storia continua tra efferati omicidi, fino alla vendetta.
Caina, il romanzo di Morganti, nasconde incubi e poi li svela, lascia poco all’immaginazione, sbatte in faccia frammenti contundenti di un’attuale, drammatica, drastica contemporaneità.
E’il fiondarsi a tutto spiano nelle irregolarità dell’esistenza, in una realtà vicina e tangibile.
Al vertice di questo incubo la paurosa maschera del male indossata da Vincenza, donna di un Sud preoccupante, nera nel viso e nell’anima, delinquente, xenofoba, razzista, omofoba, killer spietata, l’identità corrotta della meschina società moderna, radicata nel desueto populismo, annegata nella voluta ignoranza.
Tuttavia i morti ammazzati ogni tanto fanno capolino nei suoi incubi, nelle cui nere visioni si conserva un barlume di coscienza.
Davide Morganti, autore e drammaturgo napoletano, è davvero uno scrittore fuori dagli schemi, che disincaglia dalle consuetudini, che getta ai nostri piedi irregolarità esposte nella loro cruda natura.
Ci voleva tutta la sua cura dei particolari per donare al film Caina di Stefano Amatucci, candidato agli Oscar, la giusta sceneggiatura dai tratti temibili, spietati ma vincenti proprio perché pericolosamente realistici nella loro pienezza dei contenuti e dei dialoghi.
Davide, in occasione del film Caina, di cui sei sceneggiatore, distribuito quest’anno e candidato agli Oscar, parliamo prima del tuo romanzo omonimo, uscito nel 2009. Tu sei uno scrittore insolito, intelligente e spietato. Cosa ti ha spinto a raccontare episodi di una vita così terribile, tanto da risultare tangibile?
“Non so, non ricordo, è comunque lo sviluppo di un racconto, La malagrazia, del 1998 su consiglio di Diego De Silva”.
Quanto c’è di vero in ciò che racconti in questo romanzo e quanto falso si nasconderebbe nel vero?
“Un romanzo è sempre finzione, non ho mai inseguito il vero, in fondo la realtà c’è già e raccontarla non mi ha mai entusiasmato, preferisco inventare, se ci riesco”.
Ambientare una storia così cruda nella terra in cui vivi è anzitutto una bella sfida. Quanto credi che possa aiutare menti potenzialmente più aperte? C’è bisogno dei libri o delle fiction per sensibilizzare un pubblico più sensibile? Oppure proprio i libri e i film darebbero man forte ad un’ideologia errata del potere?
“Mi piace molto ambientare storie nella mia terra ma non è una regola, come dimostra l’altro romanzo uscito per Neri Pozza “La consonante k”, che coinvolge diversi paesi europei e americani. Trovo che la mia terra, che è il litorale flegreo – domizio, sia un luogo di estremi e di contraddizioni senza che nulla sia pacificato, le sue strade larghe, i suoi parchi, il suo mare offeso, le sue spiagge, le sue lingue sono un mondo per me affascinante, purtroppo fino adesso è stato usato pochissimo. Riguardo ai libri, i libri stanno forse morendo e credo che non abbiano alcuna influenza specie sui giovani e lo dico da docente di scuola, da me quasi nessuno legge; le fiction spesso rafforzano solo luoghi comuni, non c’è desiderio della scoperta ma voglia di consolidamento per attirare un pubblico che vuole solo essere distratto e rassicurato, ma vedo parecchie serie televisive su Netflix, specie quelle del nord Europa, luoghi che amo da quando, ragazzo, lessi Hamsun, Bang e Strindberg e guardai i film, ancora adesso innamorato, di Dreyer e Bergman”.
Immedesimandoti nel tuo ruolo professionale, quindi da insegnante di Lettere, quanto credi sia necessario preparare le future generazioni del Sud ad affrontare tematiche fondate su azioni illecite?
“E’ sempre necessario farlo e va fatto, senza mai abbattersi, però il problema è che il tessuto sociale e gli adulti sono soprattutto testimoni di come il male sia una linea molto più sottile di quanto si voglia insegnare e c’è anche il rischio, a mio avviso, di far credere che il sud sia soprattutto luogo di male e me ne accorgo con i miei alunni i quali hanno del nord un’idea di ordine e di pace mentre noi rappresenteremmo il peccato originale del mondo. Ai ragazzi bisogna provare a dare uno sguardo ampio, larghissimo, che non escluda nulla ma che tutto vada analizzato e osservato senza demagogie, di cui il nostro paese è saturo”.
Ed ora parliamo del film Caina, candidato al premio Oscar tra i lungometraggi italiani. Quali sono le differenze fondamentali con il tuo omonimo romanzo?
“Del romanzo c’è la personalità di Vincenza, la protagonista del romanzo, e molte scene tra cui il suo parlare con i morti nel cemento, il finale, gli annegati, il rapporto con la madre, il disprezzo per l’Islam, la sua attrazione per un extracomunitario. Ma non è una trovacadaveri, è una killer spaventata che sente anche la voce delle persone che ha ucciso lei, dal cemento, ed è stata abbandonata dal suo amante musulmano. Nel film si chiama Caina e basta, nel romanzo Vincenza, anche perché Caina non è lei in realtà”.
Nei ringraziamenti, alla fine del libro, citi già il regista Stefano Amatucci, ed era soltanto il 2009…Quanto lavoro ha quindi comportato la buona riuscita di un film così crudo ma essenziale, a tal punto da meritarsi l’attrazione di Hollywood?
“Io e Stefano eravamo compagni di scuola alle superiori e ci siamo reincontrati da adulti, a Piazza Amedeo dove di pomeriggio lavoravo nell’edicola della mia famiglia, una volta uscito da scuola. Stefano mi ha sempre incoraggiato, fu lui a suggerirmi di fondere un mio monologo, “Il trovacadaveri”, andato in scena all’Elicantropo di Napoli con Stefano Meglio e diretto da Mario Gelardi nel 2010 mi pare, con il romanzo Caina che da poco era stato pubblicato da Fandango. Ne ho fatto prima un testo teatrale e infine, in collaborazione con Stefano, una sceneggiatura”.
Sempre nel lungometraggio, Caina è interpretata da Luisa Amatucci, sorella del regista. Quali emozioni ha risvegliato in te l’interpretazione magistrale della tua creatura spietata?
“Luisa è stata eccezionale, davvero una grande interprete che meriterebbe un premio, ma non sono tipo che si smuove facilmente, ho visto il film con l’attenzione di un editor e oggi certi dialoghi li scriverei in modo diverso. Il cinema, comunque, per me, resta questo episodio e basta”.
Siccome so che sei sempre stato uno studioso di Teologia, quanto credi che la religione abbia influito e influisca nei comportamenti xenofobi di Caina, così come nella società odierna?
“Va di moda dar la colpa alle religioni, soprattutto cattolica e musulmana, se poi fai domande e chiedi nessuno sa nulla, un’accozzaglia di informazione prive di senso. Non scherzo se ti dico che per alcuni Cristo è il cognome di Gesù! Trovo ridicoli gli attacchi al papa che, per far contento la moda del progresso a tutti i costi, dovrebbe essere come desidera la moda e non come è davvero la Chiesa. La Chiesa ha dogmi antichi, non è una modella che fai mettere in posa come vuoi, invece la xenofobia è un vizio antico non legato alle religioni ma a un odio a cui fa comodo avere qualcuno da odiare”.
Mi sapresti dire, oltre Davide Morganti (pseudonimo), come interpreta il prof. Davide Palmieri (il rispettabile professore di Lettere quale tu sei) l’ondata migratoria degli ultimi anni? Condivide le misure prese dall’attuale governo? Caina è l’esasperazione di una fobia largamente condivisa oppure vive solo nella fantasia del suo autore?
“Salvini con la sua volgare mania di protagonismo ha posto una questione che finalmente l’Europa ha preso in considerazione, mi sono sempre chiesto come mai tante coscienze così delicate non siano insorte prima, quando migliaia di povera gente è sbarcata finendo nel buco nero della fame, della strada e dell’illegalità senza che ci fossero proteste, cortei, indignazione. Agli italiani piace strepitare e sentirsi buoni, senza mai essere in prima linea. Come le vecchiette si sentono in paradiso dopo aver dato un euro al povero, così questi chierichetti della bontà si guadagnano l’umanità con uno striscione parrocchiale o con uno strillo indignato su facebook contro un politico lombardo che passerà presto. Non ho letto di catene umane, movimenti di solidarietà mentre in Italia sbarcavano disperati, soprattutto leggo astio verso Salvini più che voglia di aiutare chi viene da fuori. Persino il caporalato, di cui anni fa parlava nei suoi libri Leogrande, pare esser nato pochi mesi fa. Trovo tutto questo patetico perché è squallido ostruzionismo politico e nonumano indignarsi. Uno scrittore come Sergio Nazzaro ne ha parlato spesso nei suoi libri degli immigrati, rimanendo solo con le sue parole, poco ascoltato. L’immigrazione va regolata, trovo ipocrita far accomodare tutti così, come capita, senza rispetto di regole, giusto per sentirsi bravi, si rischia di finire come nella cabina dei fratelli Marx dove Groucho, per una festa sulla nave, faceva entrare chiunque bussasse alla porta, alla fine non c’era più spazio per nessuno, ognuno stretto, soffocato e solo, senza poter fare nulla per essere altro da quella posizione a cui si era stati costretti. E la festa saltò”.
Leggendo il tuo romanzo mi è venuta in mente La Sposa alias Black Mamba del Kill Bill I e II di Quentin Tarantino. Nel tuo libro però Bill potrebbe essere sostituito con l’egiziano Eihab, causa dell’ira e della vendetta della terribile protagonista. Ci hai mai pensato?
“Veramente confesso che nemmeno ricordo di cosa parli Kill Bill! Ti posso però dire che Eihab Ali Gaber è il nome di mio nipote e vive in Inghilterra”.
2018