APPUNTI SU RENATO OLIVIERI
Tra il 1978 e il 1998 le contrade del giallo nostrano sono state frequentate da una figura di poliziotto piuttosto anomala, forse non del tutto credibile (scusate se generalizzo: qualcuno di voi conosce un poliziotto colto?) ma decisamente lontana da qualunque stereotipo. Stiamo parlando del commissario Giulio Ambrosio (immagino, ma non ne sono certo fino in fondo, che il nome di battesimo sia un omaggio al più famoso tra i colleghi e parigrado francesi, Jules Maigret), protagonista dei tredici romanzi firmati da Renato Olivieri.
In anni di riscoperte e rifioriture del panorama noir e thriller in genere, l’eredità di Olivieri è una delle più disperse e sostanzialmente non raccolte. Alfiere di un’idea di giallo classico, dall’intreccio lineare e controllato, attento alle dinamiche morali dei personaggi, senza cedere alla tentazione del colpo di scena ad ogni costo, Olivieri è stato anche un grande stilista. Le sue storie sono scritte in una prosa cristallina, dominate da lunghe sequenze dialogiche che danno una sfumatura teatrale all’azione. Chi è abituato ai topoi, spesso insopportabili, della scena gialla contemporanea, potrebbe restare assai sorpreso dai libri di Olivieri. Cose come le estenuanti descrizioni di pietanze ammannite da poliziotti gourmet, lunghe e ininfluenti tirate moraleggianti e piagnistei assortiti non trovano posto tra le sue pagine. Olivieri è profondamente nordico e se la milanesità non fosse una caratteristica fondante della sua scrittura, potremmo quasi scambiarlo per uno scrittore di area mitteleuropea, diciamo un Durrenmat meno provocatorio. Da Il caso Kodra, opera d’esordio all’ultimo Albergo a due stelle abbiamo un vero e proprio catalogo dei luoghi di Milano, set di tutti i romanzi con pochissime trasferte (il finale austriaco di Hotel Mozart del 1990) la cui onomastica stradale arriva anche a campeggiare sulla copertina come nel caso di Largo Richini (1987), uno dei risultati più alti del nostro. E d’altra parte l’interazione tra detective e città è marchio di fabbrica di ogni giallista che si rispetti.
Il sentimento che informa le pagine di Olivieri è la malinconia. Nelle sue tredici inchieste Ambrosio si trova più volte a fronteggiare i fantasmi della memoria. Uomo di mezza età, il commissario si muove con sulle spalle la sua dotazione di rimpianti, inquadrati un attimo prima che si cristallizzino in amarezza. Se è vero che, come tutti gli investigatori dal Dupin di Poe in poi, Ambrosio è colui che riporta l’ordine in una situazione di caos è altrettanto vero che, modernamente, deve scontrarsi con una macchina della giustizia più complessa e sfuggente di quanto non sia lecito ammettere. In L’indagine interrotta (1983) e in Piazza pulita (1991), le opere più cupe e pessimiste di Olivieri, abbiamo prima un delitto sullo sfondo della strategia della tensione destinato a rimanere impunito poi il cambiamento antropologico all’interno del milieu criminale lombardo, di fronte al quale un uomo come Ambrosio non può che rimanere spiazzato seppur caparbiamente deciso a regolare i suoi conti.
Sembra inevitabile, in un articolo dedicato a Olivieri, scrittore a tutto tondo al di là dei generi, parlare del suo protagonista seriale come e più dell’autore stesso. Probabilmente è il destino di tutti gli scrittori che si sono legati a un personaggio ricorrente. Difficile scrivere per anni di qualcuno senza trasformarlo, in maniera più o meno trasparente, nel proprio alter ego. È successo a Chandler con Marlowe, a Spillane con Mike Hammer e i suoi numerosi cloni, naturalmente a Simenon con Maigret e si potrebbe andare avanti a lungo. Evidentemente tra scrittore e creatura di carta si crea un fatale impasto di affetto e ideologia, desiderio e messa in scena. E comunque è impossibile mettere in secondo piano un uomo come Ambrosio, che Oliveri tratteggia in modo vivido ed essenziale, dalla più volte ricordata somiglianza con l’attore Lino Ventura che contribuisce a calarlo in un’orbita francesizzante, da polar anni ’50, alla cultura profonda, come ricordavamo qualche riga sopra, mai ostentata così come le ferite del suo cammino di uomo (una per tutte: l’ex moglie Francesca che lo abbandona e che torna praticamente in tutti i romanzi come una sorta di fantasma gentile seppure invadente).
Leggere Olivieri, narratore onesto e appartato, è come salire su una macchina del tempo e ritrovarsi in un’Italia non meno feroce di quella attuale, forse solo leggermente più decifrabile grazie all’opera di uomini di buona volontà, se si vuole credere alla loro esistenza.
La foto di copertina è tratta da noiritaliano.wordpress.com