Scrivere senza essere incompleti, discontinui, sospesi, su un autore di aforismi, non deve essere stato agevole né facile. Se poi lo scrittore o il filosofo è Cioran, la faccenda, allora, sarebbe ancora più complessa e degna di plauso. Lo studio è di Vincenzo Fiore. Il titolo del libro è Emil Cioran – La Filosofia Come De-fascinazione E La Scrittura Come Terapia. Nulla Die Edizioni. 2018. Il volume è arricchito di due bellissime foto di Vasco Szinetar che ritraggono Cioran allo specchio. Una volta con lo stesso fotografo e un’altra con Carol Prunhuber, giornalista e traduttrice della quale, in chiusura del libro, si riportano un breve testo del loro incontro a Parigi e un diffidente, quanto ombroso ritratto fotografico del grande pensatore rumeno. Un’altra immagine di Cioran della Prunhuber è nelle pagine iniziali del libro, mentre il corrucciato e infossato ritratto della copertina è di Szinetar.
Il libro si legge bene. Scorre che è un piacere. Ha un ordine serrato e ben documentato, quasi maniaco. E lo stretto rapporto tra biografia e pensiero del filosofo rumeno è reso con una naturalità e una sequenzialità davvero sorprendente. Si passa dalla formazione di Cioran in Romania alla svolta parigina. In altre parole, dalla sua infanzia felice alla coscienza che dopo quell’età la sua vita sarebbe stata una vera e propria catastrofe. Lo studio della lingua tedesca. La passione per la musica. I primi pensieri sul suicidio. Il dolore. Fino al liceo e quindi all’età di diciassette anni, siamo nel 1928, quando inizieranno le sue insonnie. S’iscriverà all’università di lettere e filosofia. Inizierà il suo percorso e il suo fervore esistenziale e politico. Si laurea con il massimo dei voti nel 1932 con una tesi sulla filosofia di Bergson.
Tuttavia, già dagli anni precedenti, Emil Cioran ha rotto qualsiasi rapporto con l’università. Scrive in una lettera al suo amico Bucur Tincu: “… non ti offre un’esistenza migliore rispetto a quella di un mendicante di strada.” Il filosofo dorme poche ore il giorno. Il malessere è ormai persistente. Cioran in preda alla disperazione urla di non farcela più. Puntuale la citazione che riporta le parole della madre: “Se avessi saputo, avrei abortito”. Si accenna a un altro tema caro a Cioran. L’inconvenienza di nascere. Che sarà sviluppato da Fiore nei capitoli successivi. Prima, però, il suo esordio letterario. Al culmine della disperazione. 1933. Il filosofo dichiara la rottura con la filosofia ufficiale. Cioran non elaborerà mai un sistema. Una dottrina. O una visione del mondo. Ritiene nullo ogni sapere che abbia come fondamento una verità.
È la vertiginosa estasi dell’insonnia. L’assurdo del dolore. L’insignificanza del proprio esistere. Sebbene senta che l’unica realtà a essere vera è proprio la sua. L’oneroso della vita è nella sua compattezza al dolore. Una sofferenza sconfinata. L’esistere inessenziale e senza possibilità di redenzione. Il vuilleur. Il vegliante, il pensatore, chi ha sposato la conoscenza e di conseguenza non può che essere un fallito. La conoscenza è nemica dichiarata della vita. A tale proposito, la figura che si oppone allo sveglio è il dormeur. Ovvero chi non sa niente. La maggior parte dell’umanità, dice il filosofo, è formata da questa tipologia di uomo. L’uomo non sa niente. Lo stato d’incoscienza è per Cioran una disposizione naturale che permette l’imprevidente e assurda conservazione della specie.
“Come non riconoscere il vantaggio che ha su di noi un ratto, proprio perché è un ratto e nient’altro?” Cioran arriverà a sostenere il desiderio di essere addirittura un vegetale. Siamo al culmine di un pensiero talmente radicale e disperato da sostenere l’inferno come unica e massima possibilità di comprensione dell’esistere. “Forse anche il granito soffre. Tutto ciò che ha forma soffre, tutto ciò che si è sottratto al caos per seguire un destino separato. La materia è sola. Tutto ciò che esiste è solo. Nessuno, nessun dio che possa liberare il mondo da una così antica solitudine!” La solitudine e la morte. L’instabilità dell’uomo e la disperazione. “Ogni volta che l’uomo è tormentato dal pensiero della morte, diviene altro”. L’insensato diventa pertanto l’unica possibilità di conservazione. La guida in un universo d’illusioni. In breve, Cioran dice di prediligere la presenza. Il vissuto rispetto alla teoria. La vita rispetto alla cultura. Una contraddizione, forse. Tuttavia, il filosofo ne è cosciente al massimo grado. “…l’ultimo degli illetterati e Aristotele sono parimenti inconfutabili – e fragili.”
L’estasi. L’esperienza mistica. La lettura dei santi. La completa esperienza della solitudine. Tutto ciò porterà il pensatore rumeno a una vera e propria elaborazione di un’ermeneutica del dolore, cui si aggiungeranno la musica e lo scherno intorno alla fede. Lacrime e santi, 1937 sarà l’effetto di un percorso estremo e vissuto fino all’inasprimento. Un’opera, questa, che procurò feroci critiche e inimicizie. Il libro fu ripudiato addirittura da un editore che sostenne di essere diventato ricco grazie a Dio. Cioran è allontanato da tutti. Finita la guerra, il pensatore rumeno si trasferirà in Francia. Sarà la svolta definitiva, sebbene non avrà mai fine, nonostante l’abiura di ogni forma di totalitarismo, l’accusa di essere un reazionario e di essere stato un simpatizzante dell’estrema destra.
A questo punto, l’ipotesi della de-fascinazione nel secondo capitolo del libro, cui seguirà il presupposto della scrittura, aforistica nel caso di Cioran, come auto-analisi e terapia. Dopo una malattia grave, in certi Paesi asiatici, nel Laos ad esempio, succede che si cambia nome. Che visione all’origine di un tale costume! In realtà, si dovrebbe cambiare nome dopo ogni esperienza importante. Il pensatore rumeno è a Parigi, si lascia tutto alle spalle e adotta la lingua francese. Avvia così il suo pensiero, ma sarà soltanto una superflua verifica fino all’esasperazione. I suoi bersagli saranno di nuovo la filosofia, o almeno una sua parte, [Aristotele. Tommaso d’Aquino. Hegel. Heidegger. Foucault.] il cristianesimo e le ideologie. Nietzsche, Pascal, Sestov resteranno, invece, i suoi più validi interlocutori.
Cioran spiega che il suo aforisma non deve essere considerato un vero e proprio aforisma, ma come il risultato di uno svolgimento di pensiero cui si è salvata soltanto la conclusione. “Si tira un aforisma come si allunga uno schiaffo”. Questo è l’unico stile linguistico adatto a una filosofia auto-terapeutica, in altre parole quando si scrive solo per se stessi e non per formulare qualche assurda teoria della conoscenza. Coltiva l’aforisma soltanto chi ha provato “la paura in mezzo alle parole, quel terrore di crollare con tutte le parole”. Cioran punta il linguaggio filosofico e i professori della filosofia. “La storia della filosofia è la negazione della filosofia”. Il problema gnoseologico, ancora Cioran, è diventato “accessorio”, esistono soltanto due grandi questioni: come sopportare la vita e come tollerare se stessi. Il grande pensatore rumeno ha fatto della scrittura e del suicidio una costante morbosa. Nessuna delle due l’ha, però, mai sopraffatto. Cioran muore di morte naturale nel 1995.
Un bel libro quello di Vincenzo Fiore. Un saggio notevole, pieno, denso. Sostenuto da una precisa e attenta letteratura bibliografica. Assolutamente da avere.
Filosofia
Nulla Die
2018
188