“Diario impossibile” è un’opera letteraria non ancora conclusa. Si spera di finirla entro l’anno, ma in teoria non ha un tempo. Fondamentalmente è un diario quasi giornaliero. Un’astrazione verificabile ma priva di senso. Una riflessione inesauribile. Inadeguata e contorta. Oracolare. Ma potrebbe andare bene qualsiasi aggettivo o dicitura che non attenti l’ambiguo, il vessatorio o l’instabilità oscura del lettore. O non ne mortifichi una sinossi. Luogo complice e disonesto. Approssimativo e mentitore. Il diario, dunque, pagina infattibile, labirintica e infetta. Tuttavia, una misura, benché imprecisa e provvisoria della realtà. O della letteratura? Lo scrittore sceglie. La parola è superflua, grottesca, diffidente, vacante. Eppure, oggetto sacro. Avverso. O avviso. Può essere una salvezza. Una dignità. Una coreografia. Tutto il portabile e il sopportabile ma nessun delitto passionale. L’uomo sempre presente. L’uomo. Una specie feroce. Una piaga. Un’astuzia di metafore continue. Un magma lavico e incandescente di assurdità. La scrittura, infine. Il suo dire di se stessa inesauribile e infecondo. Diario impossibile. Purché si sappia del dunque e del niente. Ed ecco un brano del mio libro.
L’afa aumenta in maniera vertiginosa. Pioverà ancora nel pomeriggio. Adesso suonano le campane. Stanotte i botti hanno fatto vibrare i vetri. Per molti è estate così. Tra i rumori della notte, ce n’è uno in particolare che non è più percepito. Forse si trasfigurerebbe in una nuova legge, e sarebbe un soave invito a dialogare con il nulla o la parola. Che differenza ci sarebbe, dopotutto. I tempi sono lunghi. Quelli dell’essere sono indicibili. Abbiamo dentro qualcosa di vasto ma puzza di zolfo quando si lega con l’idrogeno. E non si capisce se tutta questa dovizia, sveli o nasconda. Sarebbe un grido e basta. Non di sofferenza né di gioia. Nel senso che sarebbe difficile da decifrare. Dove va, l’essere resta misura intermittente. Cioè ha altra lingua. Altri suoni custoditi e profondi. Altri sacrifici. Altri infine. E chiarori che avranno altre splendenze. Luce in parole policrome. Nuove. Iridescenti. Mutevoli. Inestinguibili. Viene in mente lo Stesso. Che non è l’uguale e non è neanche il casuale o l’ignoto. Il punto è che entrambi, cioè lo Stesso e il suo opposto stanno prima di sempre. Ciò che si lascia oscillare è la nostra percezione di essi. Che bisogna fissarsi sia insito in qualche seme custodito ad arte. Un seme imperituro che non smette di spuntare meraviglie e idiozie. Imperiture entrambi, per fortuna e per sovrabbondanza di benevolenza. Occorre rientrare prima del seme. E da allora che l’inizio è l’inizio di un tornare indietro. Ancora impossibile senza una nuova manovra e una riconciliazione sul nulla. Ripensare la notte come una copia di un manoscritto è un peso che bisogna sopportare, sebbene di questo imprevisto, non sia facile discernere chi debba reggere il carico. Altre paia irrisolte potrebbero incombere. La coscienza e il soggetto non sono cose da poco e il perdurare è volere umano. O numero? Nella filosofia rendere le cose semplici è una strana faccenda – tanto più le cose diventano semplici, tanto più restano misteriose. E io non vorrei mettere in testa al pubblico che la filosofia possa rispondere alle sue domande. Lo Stesso, proprio perché è lo stesso, ritorna. Non c’è rimedio a una legge di natura. Si possono ovviare dei ripari ma bisogna sapere che sono brevi e transitori. Certo, meglio di niente. Solo così si capisce la storia. Una strana interazione di fugacità e perversione. E nessuno a indicare la giusta posizione da tenere. Non c’è. Ci si arriva da soli. Ma è frustante l’esserci, sia l’esserci in posizione sbagliata. Pare ovvio, ma è una questione prima filosofica. Non c’è niente di più iniziale della filosofia. L’inverso sarebbe come fondare un edificio dall’attico. Analogia non dispotica ma valida. L’esserci è una parte rilevante dell’esistenza. Spesso si confonde con la realtà. Altro albero astruso e rampicante, ma dalla buona ombra. Mi tranquillizza sapere che sono qui e ora. Nient’altro. Il sole è una barriera d’incertezze solide. Il sudore, invece, cola dai pori come fosse l’acqua di chissà quale fonte primigenia. Tutta questa inutilità dello scrivere necessario. Questo lavoro infaticabile al quale non si reclama che un superfluo e vacuo gioco di sensibilità di difficile guarigione. Diviene cura eccedente. Pletorica. Pleonastica. Lacunosa. Il mondo nostro. Non per volere, ma per idiosincrasia. L’essere e il pensare sono la stessa cosa? Scrivere è l’esserci. O un’eccellente idiozia? Nessuno risponde. C’è silenzio. Un nulla che interpretato è più grande del nostro misero destino. Vedo una foto che mi fa piangere. È un cane ammazzato. Prevale sempre un destino più basso. Forse in termini diversi è l’unico destino possibile. Ognuno faccia come crede. Si suda già abbastanza, qui. Per oggi basta.
Salvatore Marrazzo
In copertina uno dei lavori di Salvatore Marrazzo