“Ciò che spero di scrivere di più esatto si situa probabilmente all’intersezione tra famigliare e sociale, tra mito e storia. Il mio progetto è di natura letteraria, poiché si tratta di cercare una verità su mia madre che può essere raggiunta solo attraverso le parole. (Una verità, dunque, che non mi può essere data né dalle foto, né dai ricordi, né dalle testimonianze dei parenti.) Ma, in un certo senso, spero di restare al di sotto della letteratura.”
Qualche giorno dopo la morte della madre, senza attendere il tempo necessario che, come dirà più tardi, facilita l’analisi dei ricordi, la Ernaux verga sul foglio l’incipit di questo libro. All’interno, nel corso di circa cinquanta cartelle, ne ricostruisce la biografia, tracciando al contempo la storia più universale di un certo percorso di vita del Novecento. Soprattutto, però, alla scrittrice tocca un compito difficile, perché, agli occhi di una figlia, una madre “c’è sempre stata” ed è dunque “priva di storia”. Il tentativo si trasforma così in una lucidissima analisi di quella donna che non c’è più, del suo contesto di partenza, del suo percorso di crescita e del suo punto di arrivo, (anche) al fine di comprenderne meglio le grandezze e i limiti (“come considerarlo ammissibile, senza aver subìto la sua stessa alienazione?”). In questo tentativo dichiarato ce n’è un altro sotteso, più sottile ma che rappresenta la chiave di lettura più autentica del libro (e che lo pone sulla soglia tra memoir e romanzo). La Ernaux è innanzitutto una scrittrice – una scrittrice che è anche donna, moglie, madre, figlia, amica, ma condannata alle parole proprio dalla benedizione del proprio talento. Per questo motivo, è consapevole che ogni particolare si riconduce all’universale – e non importa che lei ci pensi o meno, perché è nell’automatismo della sua essenza. E dunque la penna si fa strumento di un messaggio, non si limita a ricostruire una vita di uno, ma a celebrare la Vita di tutti – e lo fa senza sussulti, delicatamente, talvolta per contrasto, ma sempre limitando gli impeti. Così l’analisi dell’altro sfocia inevitabilmente nell’analisi di sé, nell’analisi del mondo, e la rigidità della logica, alle volte, lascia spazio alla malleabilità dei sensi (“Fino a vent’anni, ho creduto di essere io a farla invecchiare”). La madre, allora, si presta al filtro attraverso cui la donna racconta e analizza se stessa, e l’illusione che il libro non parli che della prima è tutta dovuta all’abilità della seconda. “A volte pensavo che la sua morte mi avrebbe lasciato indifferente”, o soprattutto, “Molte volte, il desiderio impellente di portarla via con me, di occuparmi soltanto di lei, per accorgermi subito che non ne sarei stata capace”: sono diversi i passaggi in cui la donna rivela una parte profonda tutta personale.
Lungo le pagine – che procedono in un resoconto cronologico – si delineano presto le contraddizioni del rapporto madre – figlia, pregno di un amore che la distanza generazionale e il distacco culturale hanno reso difficile comunicare e che quindi si fa talvolta conflitto o muto dissenso o affetto taciuto (“quando eravamo da sole sembrava desiderare che le facessi delle confidenze su mio marito e sulla mia relazione con lui, delusa, per via del mio silenzio, di non poter rispondere a quella domanda che, più di ogni altra, doveva assillarla: ma la rende felice, almeno?”).
La scrittura della Ernaux ha un’asciuttezza quasi brutale, eppure, senza cedere mai a un accenno di lirismo, è densa e potente. Il libro ha il pregio eccezionale di essere lucido e acuto, ma conserva, anche se molto diluita, la voce propria della figlia (“Questa maniera di scrivere, che mi pare andare nella direzione della verità, mi aiuta a uscire dalla solitudine e dall’oscurità del ricordo individuale tramite la scoperta di un significato più generale. Ma sento che qualcosa mi oppone resistenza, vorrei conservare di mia madre delle immagini puramente affettive, il calore o le lacrime, senza dar loro un senso.”). In questo verso, il ruolo dello scrittore svolge una funzione importante nell’elaborazione di una perdita (come diceva Proust, scrivere del proprio dolore è un atto che ci fa bene, al pari del moto fisico) e perfino, nell’evidenza del libro che si fa storia, una sorta di facilitazione all’oblio. Ma soprattutto la Ernaux ha la capacità di fissare in poche parole i passaggi più significativi dell’intersecarsi di (due) esistenze. Viviamo solo in rapporto agli altri e solo in relazione a loro possiamo dirci giovani o vecchi, buoni o cattivi, colti o ignoranti. L’assolutezza non è propria degli uomini.
L’Explicit del libro è magistrale e sembra quasi essere lo sfogo a una commozione più volte trattenuta. In definitiva, Una Donna vale ogni minuto del poco tempo che impiega la sua lettura.
Letteratura, memorie
L'Orma
2018
99