Baboucar guidava la fila. E noi camminiamo con lui
A volte sono le “piccole” decisioni a fare grande un editore. È quello che è accaduto con minimum fax che, proprio in questi giorni ha mandato in libreria E Baboucar guidava la fila, di Giovanni Dozzini. Perché diciamo questo? Perché, dichiariamolo subito, a scanso di equivoci, questo libro parla di immigrazione raccontando, visti dagli occhi dei quattro ragazzi protagonisti, due “normali giorni” di ordinaria fatica di vivere. Baboucar, Ousman, Yaya e Robert sono quattro ragazzi come tanti, come tanti di quei ragazzi e ragazze, uomini, donne e bambini che sembrano essere diventati il capro espiatorio della cattiva coscienza degli italiani.
Sono quattro richiedenti asilo “raccontati” nell’arco di due semplici giorni in cui la normalità è una giornata al mare. Semplice no? Peccato che, per loro, la semplicità non esista, perché niente è semplice per loro e, tantomeno facile. Non è facile salire su un treno, non è facile entrare in un bar per un caffè, dormire in spiaggia, muoversi, parlare. Niente.
In un racconto che si dipana con un ritmo quasi monotòno (che sembra un ossimoro ma è esattamente il cuore del romanzo) Dozzini ci conduce in una storia fatta di niente, di gesti che la nostra quotidianità ha metabolizzato a tal punto da non capire più quanto siano essenziali. Gesti che, invece, per Baboucar e i suoi amici sono uno stillicidio di fatica, tensione, paura, incertezza. Protezione sussidiaria, speranza che la richiesta d’asilo venga accolta, sguardi biechi della gente, sospetto, piccoli e rari gesti di umanità non ancora del tutto messa sotto il tappeto buono di casa, sono ciò che scandisce questa due giorni. Da Perugia a Falconara Marittima per vedere il mare, quello stesso mare attraversato mesi prima che, se si può tirare il fiato, sembra un mare così diverso.
E, in mezzo, la provincia italiana, quel centro Italia che qui diventa l’Italia intera. Piccole feste di paese in cui si esibiscono improbabili orchestrine, tristi come il loro repertorio e come le pailettes della giacca dei musicisti, donne sognate che sembra possano dare un provvisorio conforto, cellulari a cui ci si attacca non perché si è ricchi di fantomatici 35 euro al giorno ma perché sono l’unico modo per non essere profughi dalla vita stessa. E nostalgia, e incertezza. Baboucar innamorato di Mariam, Yaya che odia i francesi e che troverà un piccolo abisso di paura proprio per questo, delatori che chiamano anonimamente i carabinieri per una discussione che aveva un senso diverso da quello che le si è voluto dare, Ousman che sogna ad occhi aperti di accarezzare la cantante di un gruppo che gira l’Italia anonima e defilata della provincia. Non c’è altro in questo E Baboucar guidava la fila e, proprio per questo, c’è tutta la follia e la volgare grossolanità con cui si parla (anzi, si straparla) di immigrazione.
Senza proclami, senza denunce urlate, senza furbi colpi di scena, Dozzini ci racconta un frammento di vita di quattro ragazzi che vogliono solo trovare una vita migliore rispetto a quella che hanno lasciato. Con la fatica di tenere a bada la nostalgia, i ricordi, per non diventare ancora più vulnerabili. E tutto attorno una ferrovia, una ciminiera, una spiaggia con le piccole casette dei pescatori che, se per noi hanno perso anche i contorni, per i quattro ragazzi non sono anonimi particolari ma ciò che scandisce il loro cammino. Perché da ogni cosa può arrivare un altro ostacolo, in un pronto soccorso può sempre entrare un poliziotto e tu devi comportarti bene, ancora meglio di chi in questo paese ci è nato.
La tensione che non c’è nel libro è tutta trasferita nelle ore, negli attimi che compongono i giorni di questi quattro ragazzi che vanno al mare. In un bella intervista di Liborio Conca, apparsa su minimaetmoralia, a Dozzini, viene fatta questa domana: “Nel tuo romanzo ci sono questi ragazzi che trascorrono un paio di giorni tra l’Umbria e le Marche – che poi geograficamente è il cuore dell’Italia. Sono arrivati da varie zone dell’Africa – chi dal Mali, dal Gambia o dalla Cost D’Avorio – e fanno cose decisamente normali. Guardano la finale degli Europei, rimorchiano (o si fanno rimorchiare), vanno al mare, stanno su whatsapp. Leggendo E Baboucar guidava la fila, verrebbe da pensare, Ma che c’è di strano, di diverso in tutto questo?
E nella risposta dell’autore c’è un po’ il senso di tutto il libro: “Nulla. Non c’è nulla di strano in questo. La stranezza sta negli occhi di chi di solito li guarda, nel nostro modo di vederli e di pensarli. Le donne e gli uomini che arrivano in Italia dopo lunghi viaggi attraversando deserti e mari e terre sterminate lo fanno proprio perché una volta qui vorrebbero fare quel che fanno tutti gli altri.” La normalità. Quella cosa così noiosa, per alcuni, così preziosa per gli altri.
E Baboucar guidava la fila è un libro che andrebbe fatto leggere nelle scuole. Sarebbe bello che qualche professore lo leggesse ai suoi ragazzi, in classe
Narrativa
minimum fax
2018
142