Sotto il vulcano con Maria Pace Ottieri
Questo meraviglioso Il Vesuvio universale dimostra, ancora una volta, come sia il giornalismo, quello vero, a raccontare la realtà. Non la politica, non la propaganda. Un giornalismo fatto da chi si sporca le mani con la materia di cui va parlando, invece di tenersele belle pulite e innocenti digitando su una tastiera, facendo copia incolla di ciò che trova nella rete. Maria Pace Ottieri in questo suo lavoro recentemente pubblicato da Einaudi, ci regala qualcosa di più di un reportage. Un insieme di storia, di antropologia, di scienza e di sociologia. Ma, soprattutto, di geografia, intesa esattamente come scrittura della terra.
Una terra che qui è tutta imperniata, fisicamente e psicologicamente, attorno al più studiato, monitorato e pericoloso vulcano al mondo. Vesuvio universale non è solo un bellissimo titolo ma è la cifra, il vero cuore di questa storia, di queste storie su cui il Vesuvio si distende universalmente, plasmando di sé ogni piega della cultura delle genti che lo “abitano” divenendo, per ciascuno, un pezzo di vita, un imprescindibile paesaggio, una minaccia lontana e imperscrutabile. In questo senso, dunque, un giudizio universale.
Per comprendere appieno ciò che riguarda la vita dei paesi dell’area vesuviana, lo scempio a cui sono da tempo immemore sottoposti bisogna partire quasi dalla fine di questo libro. Dal 1980. Data emblematica che può aiutare a comprendere, anche risalendo a ritroso nel tempo, l’immutabile ripetersi di fatalismo, ignavia, incuria, interesse economico. Non a caso quella è la data che la Ottieri considera, giustamente, il punto di non ritorno. Terremoto dell’Irpinia: “Più i miei occhi vedono, più le mie orecchie ascoltano e più, come nell’insorgere di una malattia, sono presa da una crescente smania di sapere quando il primo germe ha cominciato ad annidarsi, quando ha avuto inizio la devastazione sistematica di questi luoghi? Un punto di non ritorno è stato il terremoto dell’Irpinia, la sera del 23 novembre 1980. I novanta secondi in cui la terra tremò in Campania e Basilicata lasciando circa tremila morti, quasi novemila feriti e duecentottantamila senza tetto, furono sufficienti a sfigurare un’intera provincia e a consegnare il grande affare della ricostruzione nelle mani di imprenditori, amministratori pubblici, banche e malavita mai così organizzata.”
Seppure con altre sfumature, con altre armi, lo sfregio a cui questa porzione di Campania è stata sottoposta nei secoli, ha sempre seguito le stesse dinamiche. Giocando criminalmente e ammantandosi della complicità (in senso etimologico dove non etico) di molti dei suoi abitanti.
In una bellissima cavalcata che dall’eruzione del 79 d.C a Ercolano e Pompei passa per quella del 1944, Maria Pace Ottieri ci racconta la storia di un luogo in cui fatalismo e mancanza di memoria, superstizioso, forse, sprezzo del pericolo, noncuranza hanno comunque condotti uomini e donne a costruire, a coltivare a inquinare e distruggere. Parlavamo di geografia perché il racconto dei luoghi è sempre presente, non solo nella citazione di molti dei comuni dell’area vesuviana, ma proprio nella loro inestricabile copresenza con la vita delle persone.
Le cave, le discariche, i reperti archeologici trattati alla stregua di ostacoli da eliminare si intrecciano alle storie dei personaggi più diversi: Lucio Zurlo e la sua palestra nella difficile Torre Annunziata, i Fortunio e la loro fortuna a base di pesce, Bartolo Longo il visionario avvocato pugliese “che si sente investito da una missione divina: costruire di fronte ai ruderi della Pompei pagana, la Nuova Pompei cristiana.” E tanti altri, eccessivi, bislacchi, eroici o truffaldini. Tutti, in qualche modo accomunati da qualcosa che sembra solo fatalismo ma non lo è: “Chi vive nei paesi vesuviani crede veramente che il vulcano che il vulcano non scoppierà mai più? O che esporre la statua di san Gennaro o della Madonna della Neve lo fermerà? O che l’unica cosa da fare sia affidarsi al proverbiale fatalismo, paralisi di ogni aspirazione al cambiamento”? No, non c’è solo quello. È una miscela di tante cose a rendere l’area vesuviana uno dei paradigmi dell’assurdità del nostro paese, delle sue contraddizioni e delle sue mancanze “La percezione del rischio legato al Vesuvio è schiacciata dal peso quotidiano della mancanza di lavoro, di cure sanitarie, di scuole, della possibilità di muoversi, infettata dall’onnipresenza della criminalità, insomma dalla desolazione che incombe sulla nostra modernità nelle sue facce più estreme e ostili.” Un abusivismo urbanistico che diventa abusivismo etico con lo sconfinamento nell’ancor più pericoloso abusivismo di necessità.
Un libro dolente e amaro in cui il racconto non diventa mai giudizio calato dall’alto ma profondo ascolto di una polifonia di contraddizioni, pervicacia, ostinazione e cecità raccontati con una prosa piena di grazia. Da leggere assolutamente.
Reportage, saggistica
Einaudi
2018
279