Lascia fare a me. Kafka e Chandler si incontrano in Mario Levrero
“Il nome di Mario Levrero non dice nulla alla maggioranza dei lettori italiani. Eppure, Lascia fare a me (La Nuova Frontiera, trad. di Elisa Tramontin), uscito in questi giorni, è il suo terzo libro pubblicato da noi dopo Il romanzo luminoso (2014) e Nick Carter si diverte mentre il lettore viene assassinato e io agonizzo (2016), entrambi per Calabuig”. Raul Schenardi inizia così il suo articolo pubblicato su alfabeta2. Ed è, purtroppo vero. Complice il fatto che la casa editrice che pubblicò i suoi due precedenti libri sia stata “una meteora” come la definisce lo stesso Schenardi e il fatto che nessuna, o quasi, recensione, ne abbia accompagnato le sorti.
Eppure stiamo parlando di uno dei più grandi scrittori uruguayani, appartenente a quel gruppo chiamato “escritores raros” da Angel Rama, grande critico letterario uruguayano, fondatore di case editrici, scrittore, conferenziere, esiliato dopo il colpo di stato che colpì il suo paese nel 1973 e successivamente vistosi negare il permesso di soggiorno anche dagli Stati Uniti. Gruppo è forse un termine inesatto, se si pensa ad esso come a qualcosa che riunisca scrittori riconducibili ad una ben definita corrente letteraria. In realtà se proprio si vuole rintracciare un filo rosso tra tutti loro, lo si può rintracciare in una sorta di surrealismo.
E probabilmente la difficoltà di dare una classificazione ben precisa è ciò che indusse molti critici bisognosi di punti di riferimento incontrovertibili ad annaspare davanti allo stile di Levrero; condannandolo ad una sorta di ghetto in cui era più comodo marchiarlo come “autore fantastico”. Sempre Schenardi ci ricorda come lo stesso Levrero abbia a lungo mal digerito questa definizione definendosi a sua volta, con forza, assolutamente realista. Scriveva infatti: “La critica letteraria sembra dare per scontate molte cose, fra cui l’esistenza di un mondo esteriore oggettivo, e a partire da lì segnala limiti precisi alla realtà e al realismo, dando per scontato che il mondo interiore è irreale e fantastico, e cerca di classificarlo secondo tali punti di partenza arbitrari e pretenziosi.”
Tutto ciò, se non portò ad un vero e proprio ostracismo, di certo condusse ad una sorta di incomprensione delle sue opere, facendo preferire quelle meno surreali, appunto. Poi, come spesso accade, fu dopo la morte di Levrero che, in parte, l’aria cambiò. E, per fortuna. Questo Lascia fare a me a che “categoria” letteraria si può ascrivere? Ma poi, ha davvero così tanta importanza? No, quando ci si trova tra le mani un libro così, un rutilante mescolio di hard boiled, irriverente ironia, strampalata indagine, autobiografismo. Lascia fare a me è infatti tutto questo. A partire da quell’autobiografismo dichiarato, neanche tanto velatamente, proprio in apertura di libro: “E’ un buon romanzo – disse il Ciccione – facendo una pausa ad effetto. Ma…” Avrei potuto immaginarmelo, perché so da qualche anno che i miei romanzi appartengono a questo genere: buoni ma…I critici si arrovellano per classificare la mia letteratura in questa o quella categoria, ma gli editori sono più realisti, e unanimi; c’è una sola categoria possibile per la mia letteratura: buona ma…”
Con un incipit così non si può che amare subito il protagonista di questo Lascia fare a me, uno squattrinato scrittore che, per soldi, dopo il rifiuto di un suo romanzo, si improvvisa detective. Ma per cercare cosa? Il misterioso autore di un libro arrivato in redazione senza mittente e a nome di un misterioso Juan Perez. Da lì comincia il suo viaggio alla ricerca di questa figura che, a tratti, appare come una metafora della letteratura stessa in cui l’arte di scomparire di taluni fu così magistralmente raccontata da Vila Matas e il suo strepitoso Bartleby e compagnia.
Tra lunghi momenti di veglia alternati a frammenti di sogno senza soluzione di continuità, questo improvvisato detective si troverà tra le strade roventi e polverose di una cittadina chiamata Penuria, tra donne e uomini improbabili,strampalati gestori di chioschi e di alberghetti, indizi che non afferra, la classica “femme fatale” di nome Juana, bellissima prostituta e un continuo divagare, strambo e irrisolto, che lo allontana sempre più non solo dall’obiettivo del suo viaggio ma, ancor più, dalla motivazione stessa che lo ha spinto ad accettare l’incarico.
Giustamente si è voluto ravvisare in Lascia fare a me più di qualche eco kafkiana mescolata a refoli della malinconia di Chandler e, a mio avviso, anche alla tenera inconcludenza (almeno fino a un certo punto) del personaggio della serie tv Fargo, quel Lester Nygaard, piccolo assicuratore di provincia magistralmente interpretato da Martin Freeman e così intriso del cinema dei fratelli Coen.
Un grande, bellissimo, divertente e amaro libro in cui, davvero, come scrive Schenardi “l’elemento onirico segna il superamento di una soglia solo immaginaria fra la realtà e il sogno”
Letteratura sudamericana
La Nuova Frontiera
2018
119