Piaceri rubati e mai restituiti. I racconti unici di Gina Berriault.
Una donna ancora giovane incontra ad una festa il figlio sedicenne di un vecchio amante. In lui, la donna rivede il padre, trasferitosi lontano e risposato. Lei ha bisogno di ricordi per sentirsi viva. Nel figlio cerca la sponda di una possibile complicità. Gli chiede di seguirla in giardino e, in disparte, al riparo dalle orecchie degli altri invitati, gli rivela la sua identità. “Gliel’aveva detto per provare ancora una volta, come le succedeva adesso che lui la seguiva, il piacere di essere al tempo stesso desiderata e piena di desiderio come allora… Glielo aveva detto per sentirsi ancora una volta la donna che era stata anni prima, corteggiata da un uomo, suo padre”. La risposta incenerisce le attese. “Quando il ragazzo la affiancò, lei gli lanciò un’occhiata per capire che effetto gli avevano fatto le sue parole e vide il volto di un bambino malato”. Nella vita dell’amante, fino a quel momento, una variabile era stata sottostimata. “Mia mamma piangeva… mi sembrava che non smettesse mai”. Ecco la vittima, ecco la presenza invisibile: la ex moglie, la madre del figlio, la rivale in amore, sconfitta dalla sua avvenenza, polverizzata dalle sue trame. Di colpo, svanisce l’illusione di avere accanto a sé un giovane adulto, comprensivo, controfigura del padre, e ritorna la realtà ruvida, la verità degli atti compiuti. Affiora il ragazzino nemico, distante, attraversato da fulminei ricordi di vita familiare infelice. L’indifferenza, smascherata, ha il sapore di un fallimento. “Sentì di avere cent’anni e di essersi finalmente accorta che la persona del passato che l’aveva colpita davvero non era quella che aveva amato di più, ma quella che aveva capito di meno”.
Questo racconto, L’amante, rappresenta la cifra stilistica, un connubio di prosa poetica e di portato introspettivo, delle short stories di Gina Berriault, scrittrice californiana morta nel 1999 a 73 anni. Dobbiamo a Mattioli 1885, raffinata casa editrice emiliana, la meritoria scelta di presentare al pubblico italiano Piaceri rubati, con la traduzione dall’americano di Francesca Cosi e Alessandra Repossi. I racconti di Gina Berriault possono essere paragonati a miniature uniche, autonome e indipendenti l’una dall’altra, comunque accomunate da un tratto riconoscibile, familiare, una matrice che resta impressa nel lettore: i pregi formali di una scrittura sicura, la precisione affilata nella costruzione dei personaggi, la cura dei particolari nella definizione delle ambientazioni e dei contesti, il peso assegnato a ogni singola parola, la partecipazione empatica ai fatti, alle svolte, alle tragedie immanenti. Uomini e donne al centro delle narrazioni sono persone comuni, appartenenti a mondi in lenta disgregazione. Nel protagonista si insinua una frattura. Solo lui, o solo lei, risulta il soggetto depositario di un’epifania, il testimone preposto a svelare un arcano, una verità intollerabile, una crepa minuscola prossima a diventare voragine. Un segnale improvviso, un errore irreparabile o un gesto sorprendente costringe queste dolorose figure umane alla resa dei conti con la propria coscienza, al confronto non più rinviabile con la memoria. La scena, finalmente disadorna, nuda, è illuminata da una luce nuova, inquietante, palpabile, proiettata sulla quotidianità.
In L’infinito potere delle aspettative, la giovane paziente di un anziano psichiatra si ritrova invischiata nell’intrico delle tattiche mentali altrui, metodici labirinti di perversione. L’invito a restare per alcuni giorni nella casa del terapista è l’anticamera di un rapporto sincero o una trappola sessuale ordita con astuzia? La proposta di matrimonio è frutto di un sentimento reale o una mossa provata mille volte con mille pazienti diverse? Dove comincia la verità, dove finisce la simulazione? “A volte era necessario chiamare amore ciò che forse non lo era”. In Bimba sublime Joseph instaura una strana relazione con Ruth, figlia adolescente di Alice, la sua amante appena deceduta. Joseph è un padre acquisito o nasconde altre mire? Chi, dei due, trasmette messaggi ambigui all’altro? L’innocenza sfiorisce alla vigilia di un triste Natale. “Quando la moquette del corridoio ebbe inghiottito i sui passi, lei cominciò ad andare su e giù per la stanza, quasi ripercorrendo le sue orme”, In Morte di un uomo minore, l’attacco di cuore occorso a Gerald spalanca davanti a Claudia un ventaglio di opportunità represse: incontri, relazioni, avventure, il futuro. “Sdraiata accanto a lui, sentì che il marito era diventato la quintessenza dell’inutilità”. Immaginare la morte di una persona, ipotizzare un’esistenza nuova, sperare di rinascere, di essere presto altrove, quando lui, il partner di una vita, deve superare una difficoltà, e potrebbe anche farcela, è indice di malignità o un risveglio della consapevolezza di sé dopo anni di frustrazione? In tutti i racconti i personaggi sostano in uno spazio di incomprensione, meta di un viaggio compiuto in solitudine.
Ogni storia corrisponde a un’equazione risolta nell’irrequietezza. Nel bellissimo Il diario di K.W., una sessantenne esasperata dalla grigia monotonia quotidiana si innamora di un giovane inquilino trasferitosi al piano di sopra, una follia soffocata nel silenzio e affidata alla discrezione di pagine mute, una chimera cullata dalle onde del risentimento e infine pagata a caro prezzo. La rivolta è il preludio di uno stillicidio morale, e mortale. La donna, martire contemporanea, affronta la consunzione dello spirito e della carne, uno stadio terminale culminato in lucidissimi ragionamenti sulla tremenda potenza dell’ingiustizia terrena. “Io gli ho dato la colpa di tutto perché avevo bisogno di una scusa, di un fiammifero per dar fuoco al mucchio di anni che ho nel petto”. Nel racconto che dà il titolo all’intera raccolta, l’autrice rievoca i piaceri che la vita ha rubato a Delia e Fleur, due sorelle cresciute nel periodo della Grande Depressione, e quelli che loro hanno rubato alla vita, uno scambio incrociato che non pareggia i conti. Si tratta, sempre e comunque, di sottrazioni tacite, di segrete conquiste su un esclusivo, intimo campo di battaglia. “Certe volte, di notte, il respiro di Fleur sembrava un dolore trattenuto nel petto. Dolore per il fatto che la sua giovane vita le era stata portata via proprio quando sperava di averla tutta davanti a sé. E Delia diceva alla sorella addormentata: dovevo andarmene, dovevo trovare la mia strada, ma non è mai stata e potrebbe non essere quella che tu pensavi mi stessi godendo”.
Spesso sono le donne ad assumere un ruolo di primo piano. Donne incastrate in relazioni dolorose, fragili, ingannevoli, come Myra, protagonista dell’omonimo racconto, relegata da un marito fedifrago a essere nulla più che una partoriente, in quanto “lui pensava che aspettare un bambino fosse la cosa più naturale del mondo e che quindi non meritava la sua attenzione”, o donne giunte al limite estremo dell’esistenza, come la vecchia madre scampata in gioventù all’olocausto nel lirico, struggente La luce alla nascita. Nella sua agonia, la moribonda sogna feste in giardino popolate da estranei, sagome circonfuse da bagliori, un delirio che si spande sull’immensità dell’oceano e contagia le due coinquiline, la figlia Leni e una misteriosa professoressa, “attenta a non fare rumori che potessero disturbare quel raduno di sconosciuti nella stanzina al piano di sotto”, donna in fuga dal carcere all’aperto normalmente chiamato ‘società’ e ospite della casa a palafitta costruita sulla sabbia. La scrittura di Gina Berriault tenta di afferrare l’inafferrabile, di sfidare l’entropia dei sentimenti umani, di rallentare lo svanire dei pensieri e di tradurre la terribile presenza della morte in segni, in simboli, in parole. Tuttavia resta, in sospensione tra le pagine, un quid intraducibile, una sensazione elusiva e impenetrabile, una malinconia diafana di nuvole e di sorrisi, una nostalgia invincibile di orizzonti perduti, un esprit de finesse non geometrizzabile, un fantasma non inquadrabile dalla ragione.
L’idiosincrasia tra l’enigma dell’esistenza e la violenza dispotica del sapere ufficiale, declinata in codici, catalogazioni e pregiudizi categoriali, è un tema molto evidente, in termini didascalici, nel racconto di apertura, intitolato Chi può dirmi chi sono? Perera, bibliotecario terrorizzato dall’idea di essere assassinato sul luogo di lavoro da qualche malintenzionato, si affeziona ad un giovane senzatetto affascinato dalla poesia, o meglio ancora, poeta egli stesso, in nuce, per il semplice fatto di condurre una vita ai margini, eccentrica, non schematica. L’outsider, alla continua ricerca di un riparo dall’orrore della notte, è ritrovato senza vita ai piedi dello scalone principale della grande biblioteca pubblica. “Reietti totali, ecco che cosa diventano i morti”, pensa Perera mentre è interrogato dalla polizia. L’imperativo politico e culturale di identificare il prossimo per prenderne le distanze ha ucciso le potenzialità che scaturiscono dall’ignoto. La sregolatezza del genio è stata sacrificata all’ordine e alla disciplina. Nel duro Il cappotto, l’imminenza della morte è rappresentata da un indumento fuori taglia, come può essere, per Eli, la cognizione, smisurata, eccedente i limiti dell’intelletto, di non avere molti giorni davanti a sé e di aver fallito nell’ultima scommessa, la riconciliazione con pezzi del proprio passato. La famiglia di origine è smarrita in una remotissima landa di memorie appassite, irraggiungibile, aliena, sepolta sotto strati di oblio e di noncuranza.
In Scherzi dell’immaginazione, uno scrittore ritrova l’ispirazione dopo aver visto due alpinisti cadere da una ripida parete rocciosa. Visto, o creduto di vedere? Qui, la morte è lo stacco radicale tra una condizione di impotenza creativa e l’impeto successivo. Non vi è accenno di scrittura autentica, non vi è poiesis, azione, mutamento o catarsi senza una preventiva accettazione della propria finitudine: “Giunto in camera sua, si sedette alla scrivania, aprì il taccuino e scrisse la prima parola sulla prima di quelle righe fini che adesso paragonava a vene azzurre infinitamente sottili”. Robert Klipspringer, affermato autore di bestseller biografici, ne La ricerca di J.Kruper abbocca all’amo gettatogli da uno sconosciuto, che sostiene di conoscere il rifugio di un suo collega, una sorta di Salinger ritiratosi nel deserto messicano, avvolto nel mito dell’assenza. Sarà lui a raggiungerlo e a rivelarne il volto? Klipspringer riceve una lezione magistrale. L’ambizione morde la polvere dell’insuccesso, la tracotanza dell’uomo venerato dai fan ottiene la meritata nemesis. “Posò la valigia al centro di quel lotto vuoto, vi si sedette e fissò a lungo quella terra senza fine, dalle valli immense e aride fino al lontano profilo dei monti frastagliati e al cielo di un azzurro lattiginoso, come increspato dal caldo, che si estendeva su tutto quanto”.
Gina Berriault disegna spazi saturi di vanità, di silenzi, ed esplora luoghi di coercizione imposta o autoimposta: zone di isolamento rurale, insediamenti urbani posticci, isole universitarie come cittadelle chiuse, cliniche governate dalla tecnica medicale il cui riflesso è il simulacro di libertà goduta all’esterno (vedasi lo splendido finale de Lo spettatore). La scrittrice americana denuncia gli infernali automatismi del vivere: emblematici gli occhi asciutti di Arnold, involontario assassino del fratello Eugie in Il bambino di pietra, un racconto superbo, glaciale, di incredibile impatto emotivo che, da solo, vale l’intero libro. “Nella sua camera si spogliò con la luce accesa, anche se con Eugie si spogliava sempre al buio, e solo quando fu a letto spense la fiamma. Non provava niente, nessun dolore. C’era solo quel silenzio immenso e strisciante dentro di lui, e quello doveva essere il modo in cui si sentivano anche la casa e i campi sotto il sole impietoso”.
Alessandro Vergari
Racconti
Mattioli 1885
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