Dai tuoi occhi solamente di Francesca Diotallevi
Messa a fuoco di un’artista distante
“…ogni cosa era contenuta lì, in quel corpo di metallo e vetro che le avrebbe consentito di restare in contatto con il mondo senza farne parte, di essere intima e distante, di combinare la presenza con l’assenza. Di tramutarsi in un’ombra che vegliava sulle esistenze altrui”.
Ci si interroga spesso su quanto ci possa davvero interessare ciò per cui stiamo faticando.
Esistono dei mestieri, delle realtà soffuse seppur rumorose, delle identità che non combaciano con ambienti circostanti, delle situazioni sprezzanti, pericolose, minatorie, degradanti, dove ci si rende conto che non sempre ciò per cui stiamo pagando sacrifici equivale a ciò per cui abbiamo pensato di vivere finora.
Qual è la strada giusta per compensare il mistero che ci attanaglia?
Dove ci porterà la convinzione che l’esistenza così per noi designata sia realmente quella per cui saremmo predisposti?
E così esistono anche delle attitudini, delle passioni, delle distrazioni, delle distinzioni.
E in tali contesti, quelli quassù elencati, gli animi più profondi e dediti ad una stranissima, seppur condivisa solitudine, quelli più sensibili e diretti verso un egocentrismo mirato a fin di bene verso la propria psiche, utilizzano le energie restanti per rimuginare sui torti, strozzarsi le meningi fino a far fuoriuscire quel qualcosa che li renda vivi, finalmente.
La vita resta un dono da conservare con estrema cura, e tuttavia a tali animi l’esistenza non arriva a colmare quelle lacune degli errori, degli avvenimenti impressionanti che li hanno segnati e seguono l’istinto dell’arte, che forse resta l’attività meno redditizia per mantenersi in via del tutto formale, ma che rende ricchi nell’informale, nella cui fattispecie i fantasmi delle loro ambizioni danzano su ragnatele fragilissime, ma che attutiscono le conseguenti cadute, ovattate nei suoni dei loro fitti filamenti.
Nel libro in cui stiamo per addentrarci, Dai tuoi occhi solamente di Francesca Diotallevi (Neri Pozza), tutto quello descritto finora è esplicitamente esposto nella maniera di un racconto, di una storia emozionate che rende partecipi a tutte le pagine, che incanta, fa sorridere e piangere insieme, fa sperare, fa immaginare, fa imparare.
La vita di Vivian Maier, una delle più celebri fotografe del secolo scorso, è narrata in via del tutto (dolcemente, sensibilmente) inventata da questa scrittrice giovanissima e incantevole, Francesca, che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni con piccoli tesori come Amedeo, je t’aime oppure Dentro soffia il vento.
Questa volta il tema è dei più toccanti.
“Il vetro attraverso cui guardava il mondo la teneva al sicuro, le consentiva di appassionarsi agli altri, alle loro vite, senza obblighi di emulazione. Senza tentare il tutto per tutto per avere uno spicchio di felicità, come se essere felici fosse un dovere, un desiderio collettivo a cui aspirare”.
Parlavamo di arte e di attitudini appena un momento fa, ed eccoci riproposto il tutto da una penna animata da una forza, seppur appaia in tutta la sua fragilità, sottintesa però come ciò che può sembrar più delicato.
Vivian Maier, che di mestiere fa la tata ( e che nella storia di questo romanzo si occupa di tre bambini), ma che nella vita che cerca di arricchire scatta delle fotografie con la sua fedele Rolleiflex, e immortala momenti di persone che la circondano, mentre è in giro nel tempo libero, mentre viaggia alla ricerca del suo passato, oltre che del presente, mentre esplora le persone che le stanno intorno, e ne cattura immagini a cui rende l’immortalità del momento.
E’ il suo modo di immedesimarsi nella società, anche se ad essa non sente di appartenere in via del tutto omogenea, quindi anziché fuggirne, è attanagliata dal desiderio di conquistarne il fascino con il mezzo di comunicazione che la fa sentire capace di esprimersi: una macchina fotografica.
La storia di miss Maier è, tuttavia, una delle più struggenti che si possano immaginare, con i genitori separati presto, un fratello che quasi non conoscerà mai, la vita passata a condividere la rabbia della madre, gli stenti e gli spostamenti dagli States alla Francia, dove dopo aver trovato una certa quiete subisce una violenza; infine la scelta di restare da sola.
L’unica via di scampo resta la passione per la fotografia, che eredita da Jeanne, un’amica della nonna, una personaggio che fa pensare all’indipendenza femminile dal patriarcato, un’artista ribelle e con un certo fascino, oltre che con un certo talento.
Forse Vivian non diventerà mai come Jeanne, anche se di lei imiterà la scaltrezza, ma ne supererà il talento, acquisendo un’impareggiabile maestria con la macchina fotografica, qualità che non sa o non vuol riconoscere.
Proprio lei, personaggio realmente esistito, conserverà tra tremila negativi e svariati rullini di pellicola non sviluppata, fino a che la memoria e la pazienza non abbiano retto; poi la vecchiaia ha spazzato via le ultime passioni e il suo tesoro è stato ritrovato soltanto nel 2007, in via del tutto anonima, contenuto in cinque armadi.
Tra tutte queste opere d’arte una frase scarabocchiata di suo pugno: “Ho scattato tante foto per riuscire a trovare il mio posto nel mondo”.
“…era la fotografia a dare un senso alla sua vita. Erano le immagini a colmare i vuoti che si aprivano in lei, simili a voragini. Su quegli abissi galleggiava, anziché sprofondare, grazie al riflesso che l’obiettivo le restituiva”.
Vivian cerca la strada più concreta per non avviare la tensione che ha con chi le sta intorno , una realtà schiacciante, che la infastidisce, ma a cui non può fare a meno, perché è esattamente in quella realtà che trova il suo collante tra la Rolleiflex e i suoi modelli, e dove, in tale attitudine trova il suo trait d’union con la folla che altrimenti la potrebbe impaurire.
Ha imparato a combattere tutto questo con cartoni colmi di ritagli di giornali che la seguono nei suoi spostamenti, e su cui è descritta la società verso la quale soffre un distacco fisico, ma a cui dà un volto e un’identità immortale dal suo obiettivo, e non importa se tali foto resteranno solo intrappolate nei negativi per decenni, perché in esse c’è la difesa di una donna che ha sentito a modo suo quanto sarebbe stato importante poter vivere l’armonia altrui, e che quindi preferisce far suo quello che tiene a distanza, mettendolo a fuoco.
Avrebbe detto un altro celebre fotografo, Robert Mapplethorpe, negli anni Ottanta che “le fotografie che sono arte devono essere separate dal resto e poi conservate”, e chissà, forse vien da pensare che una persona bizzarra come lui avrebbe potuto trovare delle analogie nel pensiero di Vivian, così riservata, e l’avrebbe compresa, perché in ciò che conservava gelosamente c’era la sua vera indole di artista, e non ciò come lo avrebbero potuto interpretare gli altri.
“Le persone stavano in posa davanti alla vita come davanti a un obiettivo; era quando pensavano di non essere guardate, tuttavia, che rivelavano il loro lato più autentico, l’unico lato su cui valesse la pena soffermarsi”.
Eppure quanto è gradevole poter scoprire una realtà nella fiction.
Frank Warren, il papà dei bimbi che accudisce Vivian, è uno scrittore di successo, con i cui romanzi riesce a far vivere la sua famiglia una vita dignitosa; riesce a permettersi un’auto, una governante e una tata.
Ma il signor Warren non è esattamente quello che avrebbe voluto essere.
La scrittura è un’arte nobile, ma quando quest’ultima, e si parla di essa come di qualsiasi forma d’arte, viene pilotata dal sistema affinché tale preziosità venga manomessa per diventare veicolo commerciale e di sostentamento, probabilmente perde il suo fascino primordiale.
Frank scruta a fondo Vivian, ed in essa vede ciò che lui non potrebbe essere: lei è troppo sincera, troppo autentica, mentre lui è bollato nel genere che piace agli altri e non riesce ad esprimere la veridicità che si annida nella sensibilità dell’innocenza, nella spontaneità, perché tale veicolo lo porterebbe ad un arretramento della posizione attuale che ha conquistato.
E mentre Vivian lavora dapprima in fabbrica, poi accudisce bambini e comunque continua a mantenere un tono di vita basso, rende ancor più ricca la sua dedizione, soprattutto se quest’ultima non viene messa al cospetto di un pubblico consumista e conservatore.
Al contrario Frank, sinonimo dell’odierno artista venduto e corrotto dai vizi e dalla fama, dona una notorietà alla sua immagine e il benessere alla sua famiglia ma uccide l’essenzialità e l’originalità delle opere che avrebbe voluto esporre, e che ora giacciono mute sotto un cumulo di macerie di vanità.
L’essenza di questo romanzo, oltre a dare un’identità, seppur romanzata, ad uno dei personaggi femminili più straordinari e misteriosi del Novecento, impone un ragionamento sano e concreto di come l’arte espressa serva più a salvare chi la sta elargendo, piuttosto che farla diventare oggetto di consumo, dove la vanità esalta l’artista ma sotterra il suo genio, e dove tale dono, se messo al riparo da sguardi indiscreti, critici ed indagatori, davvero potrebbe essere visto come l’ancora a cui aggrapparsi per non morire soffocati.
Carmine Maffei
Letteratura
Neri Pozza
2018
207