Ditta Costruzione Sogni
Il signor Felice di cognome faceva Lettura. Aveva ereditato dal nonno una libreria vecchia, brutta e sgangherata. Da sempre – fin da quando in età adolescenziale aveva iniziato a innamorarsi di quelli che in futuro avrebbe soprannominato, affettuosamente, i suoi piccoli cuccioli di fantasia – suo nonno gli diceva “vedrai che sorpresa ti faccio quando muoio, vedrai”. E mantenne la parola anche se non letteralmente, considerando che la morte ha tanti aspetti peculiari e oltre a creare diversi altri significativi disagi, una delle sue caratteristiche principali è proprio che mette fine alle parole. Per sempre. Insomma, il fatto era ancora più particolare. Non solo quella libreria – punta di diamante di un’eredità simbolica (qualche vecchia moneta di un altro conio e tante belle parole su ruvide lettere sgualcite) – non era niente di che; se c’era una cosa che Felice Lettura proprio non sopportava era che fosse specializzata nella sola vendita di favole. Praticamente, una condanna alla miseria. E alla noia, dato che i clienti certamente non facevano la fila per entrare. Un lato positivo, però, questa faccenda ce l’aveva: poco lavoro, più tempo libero per leggere. A mangiare non si mangia, però “vuoi mettere un bel viaggio fantastico con tanto di jet lag letterario come effetto collaterale nel passaggio dal fuso orario di un libro all’altro?” diceva sempre a chi, incuriosito – e giusto una puntina invadente – gli chiedesse quando si sarebbe sposato, di figli e quant’altro.
Quella mattina, Felice Lettura aveva appena aperto il negozio e, quasi contemporaneamente, altrettanto appena iniziato a leggere una bella favola. Sulla poltroncina, stava lì lì per tuffarsi in una delle sue storie come un olimpionico che si prepara a lanciarsi giù dal suo trampolino di realtà verso il vuoto della fantasia, che una folata di tempesta rossa fece irruzione nella libreria. Una piccola ragazza con capelli, camicia, gonnella, calze, scarpine, scialle, cestino… insomma, tutto rosso. Un urletto fastidioso, sparato nelle orecchie del signor Lettura, sconvolse i connotati di tutte le favole, affacciate agli scaffali come vecchiette pettegole sui balconi del quartiere.
«Signorina Rossi, allora? Come mai tutta quest’euforia?»
Non l’avesse mai chiesto. La piccola rosa purpurea si dischiuse, in un racconto senza freni.
«La nonnina era tanto malata, quindi per consolarla ho deciso di portarle una bella torta.»
Ma lungo la strada ad aspettarla c’era un signore, probabilmente – per gli amanti degli avverbi al gusto di eufemismo – un ladro. «Mi propone un gioco» che, a detta sua, «era tanto… tanto… tanto bello!» e cioè «chi arriva prima dalla nonna vince un premio» ovviamente per farsi dare l’indirizzo preciso, giusto per non rischiare di sbagliarsi neanche un po’. Ma la signorina Rossi, essendo una bimba molto curiosa, si perse ad ammirare le meraviglie della città. Un cinema a luci rosse attirò la sua attenzione.
«Sai che bello un cinema con tutte le luci rosse? E poi, rosse… come me!»
Insomma, giunse dalla nonna ben tre ore dopo. La porta era misteriosamente – anche al sapore d’ironia sono buoni gli avverbi, vero? – spalancata. A terra, la nonna.
«Signorina Rossi, ma come a terra?»
«Sì! La nonnina era così stanca e ammalata che si era addormentata a terra con una mazza da baseball per cuscino!»
E questo fu solo l’inizio della mattinata più bizzarra della vita del signor Lettura, tutt’affollata di personaggi come in un locale di moda al centro della città, tempio della movida notturna. Neanche un minuto (o una vita) per metabolizzare la cronaca colorata di quella che, molto probabilmente, era stata la morte della signora Boccagrande, che nella libreria irruppe Pietro Pane, giovane aviatore coraggioso. Un lungo foulard gli incorniciava il collo, come una lingua di drago che lambisce riflessi di fuoco fiammeggiante. Al telefono, blaterava di un aereo.
«Bisogna portarlo su un’isola e non mi ci vogliono mandare.»
«E perché mai?»
«Perché il mio capo, anzi la mia capessa Fatima Scampanellino, dice che ho paura anche dell’ombra mia!»
Alla fine, l’incarico era stato assegnato al vecchio Capitan Funcino, pilota da ben vent’anni che però, una volta atterrato, s’era preso un gruppo di isolani in ostaggio e nel giro di un anno riuscì, addirittura, a farsi nominare imperatore.
Poi, neanche il tempo di riprendere fiato, che subito ecco presentarsi il signor Stagni con suo figlio Brutus.
«Possibile che tutti qua venite, stamattina? Questa è una libreria, non l’ufficio del collocamento!» ansimava Felice Lettura, ormai esausto. Ma neanche il suo appello più accorato avrebbe potuto frenare la disperazione del signor Stagni, stremato dalla bruttezza agghiacciante di suo figlio. Brutus, dal canto suo, non avrebbe mai potuto smentirlo: era spaventosamente deformato. Un unico sopracciglio gli faceva da cupola, cornice ricurva sulle rovine di un volto in semi-decomposizione. In più, come se non bastasse, un rocambolesco difetto di pronuncia gli impastava le parole, come calce fra le lettere. D’un tratto, però, magicamente la bellezza fiorì sul cemento dei suoi lineamenti arcigni. Come un anatroccolo brutto, nero e spelacchiato che diventa il cigno più bello del lago.
Mancava poco all’orario di chiusura per la pausa pranzo quando anche il signor Nettuni e sua figlia Concetta fecero la loro apparizione in questa storia. Urla disumane ne annunciarono l’entrata nel negozio.
«Signor Nettuni, con chi ce l’avete? State gridando così tanto a quel telefono che dall’altra parte gli si saranno drizzati i capelli in testa.»
«Colpa di questa cretina di mia figlia! Racconta, Concetta… racconta!»
Il ronzio assillante di un’interferenza dovuta alla mancanza di segnale sembrò uscire dalle labbra della giovane donna, famosa un tempo per il suo canto puro e cristallino oltre che per i suoi capelli naturalmente rosso lucente. Aveva perso la voce, a causa di un imbroglio. In città erano stati organizzati i provini per selezionare giovani talenti da reclutare in un famoso Talent Show nazionale e Concetta s’era precipitata. Però, per capire a fondo le ragioni del signor Nettuni, s’era dovuto mettere Felice Lettura al corrente di un passaggio fondamentale: erano mesi che nel cuore di Concetta albergava, nella suite presidenziale dell’endocardio, solo un giovane. Il suo nome, William. L’amore a volte può essere crudele e, infatti, anche stavolta non si era smentito: William non ricambiava. La giovane cantante allora s’era rivolta alla Maga Orsola, la più famosa cartomante della città. “Tu va’ sotto il suo balcone, passa l’intera nottata a cantare il suo nome e vedrai che il giorno dopo cadrà innamorato tra le tue braccia.”
«Cretina! Tutti in città sanno che la Maga Orsola ama cantare ed è sempre stata invidiosa di te» ruggì Nettuni alla figlia, tutta rannicchiata per la vergogna. E così aveva perso la voce, servendo sul vassoio d’oro la vittoria del provino a quella strega della cartomante.
Insomma, a Felice Lettura non restava che una sola cosa da fare: chiudere bottega, sprangarla se necessario, e sprofondare in un sonno ristoratore. Quindi, esausto, si allungò sulla sua poltrona leggi-favole e si addormentò.
Appena le palpebre si richiusero sugli occhi come una tenda con dentro i suoi campeggiatori, ecco che alle porte dei suoi sogni subito si presentò Ole Chiudilocchio, in bilico sui raggi del suo ombrello magico. Una camicetta di seta tutta colorata gli avvolgeva il busto; il collo, bianco e completamente incorniciato da una lunga sciarpa rossa, di felliniana memoria. Anche se in pratica nella realtà non esisteva – realtà intesa come l’habitat naturale del signor Felice – nel suo ambiente onirico, d’altro canto, Mr. Chiudilocchio era unanimemente riconosciuto come uno dei più famosi registi di Dreamswood. Come tutti i suoi colleghi aveva un compito ben preciso, anche se gravoso: girare bei sogni per chi si comporta bene durante la giornata e incubi terrificanti per chi, invece, si comporta male, contemplando tutte le sfumature del caso a seconda dei vari atteggiamenti dei malcapitati.
Felice Lettura… beh, non si era comportato proprio male ma neanche benissimo. Ole, dunque, optò per una pellicola che sviluppasse le storie degli scocciatori che l’avevano tormentato durante tutta la mattinata! Insomma, niente di particolarmente angoscioso: alla fine, non se lo meritava.
Un ventaglio di simpatici personaggi, quindi, cominciarono a guizzare a intermittenza ogni volta che il povero Lettura stava lì lì per addormentarsi: dopo poco, Ole prese le redini della situazione e armato del suo caratteristico ciak urlò “motore e… azione!”. Subito, sulla soglia del dormiveglia, accorsero la signorina Rossi e sua nonna, la signora Boccagrande. La povera vecchina aveva un occhio nero e una mazza da baseball che usava un po’ per sostenersi e un po’ per minacciare la nipotina, ad ogni suo sussulto.
«Continui a dire in giro, a tutti, che io sono ricca… sono ricca… vuoi capirlo o no che io mi muoio di fame?!? Ti ostini a sbandierare ai quattro venti la mia piscina… quando ti metterai in quella testolina bacata che ti ritrovi che non è una piscina, ma una fontana?»
Pietro Pane, preceduto da Fatima Scampanellino, seguitò in tutto il suo rancore. Ora la tiritera sembrava capovolta: la fastidiosissima capessa – aggressiva nell’abbigliamento tutto calze a rete e frustini, quanto nella voce acuta come la punta dell’Everest – pretendeva che fosse proprio lui, l’impavido aviatore, a portare l’aereo su quella benedetta isola. Pietro Pane però, che misurava il suo grado di coraggio fissandolo sulla stessa asticella dell’orgoglio, adesso si rifiutava dichiarandosi offeso fino alle stelle. La discussione riempì il subconscio di Felice Lettura che strabordava, come una pentola che schizza acqua bollente sui fornelli della cucina, poi venne interrotta dallo squillo di un telefono. Un’eco cavernosa si sprigionò, come musica dagli altoparlanti della filodiffusione: era il Capitan Funcino, in vivavoce dall’iPhone di Fatima. Si ostinava a non rilasciare il popolo isolano, ormai suo ostaggio. Solo l’intervento minatorio della sua direttrice – che gli intimava la cancellazione d’ufficio di tutti i contributi versati in anni e anni di servizio – riuscì a sciogliere gli animi, tanto che tutti vollero fare la sua conoscenza, anche se solo telefonica.
Sullo sfondo delle pareti oniriche del sogno, la libreria sembrava invariata tranne che per un particolare non da poco: Ole Chiudilocchio aveva ordinato ai suoi attori di allestire un finto cantiere come scenografia, la sua personalissima Ditta Costruzione Sogni.
All’ingresso del signor Stagni con suo figlio Brutus, tutti si voltarono. Il ragazzo, anche se ormai iscrivibile a tutti gli effetti nella categoria dei belli, bofonchiava strane frasi preconfezionate, piene di elementi di dizione e ortoepia da rispettare. Suo padre aveva preteso che, visto il miracolo ricevuto, imparasse anche a parlare bene cosicché potesse, magari un giorno, trovare moglie. Brutus però, per effetto dello stress, aveva sviluppato un serissimo problema di tic che gli percorrevano tutto il corpo come improvvise scariche lungo cavi elettrici, rendendolo buffo in ogni suo movimento.
Dopo pochissimo, entrarono in scena anche il signor Nettuni con sua figlia Concetta e non passò neanche un minuto che ecco passare, davanti a tutti, una strana creatura sgargiante e rilucente, ricoperta di talismani di ogni genere.
«Concetta, ma quella non è forse la Maga Orsola?» sussurrò il padre alla figlia, sconvolto al solo pensiero di quello che sarebbe potuto accadere laddove si fosse presentato un loro incontro. Ole però, a volte, era proprio tremendo e un loro incontro era proprio quello che la sua trama mefistofelica prevedeva. Si azzuffarono, si strattonarono e si accapigliarono, specialmente dopo la rivelazione che Orsola fece alla sua rivale, non più solo nel canto, ma anche in amore: William era caduto nelle braccia della cartomante stordito da una fattura, come una pera secca.
Poi, però, trovarono un accordo.
«Sono stata proprio una strega, hai ragione» disse Orsola, consapevole.
«Ti farò un incantesimo per farmi perdonare cosicché anche tu potrai sposarti, felicemente ricambiata!»
Il sogno era quasi terminato quando per la troppa contentezza – di cui abbondava sempre – la signorina Rossi, per sbaglio, calpestò il piede del signor Lettura.
«Felice sta per svegliarsi! Via, via… tutti via!» urlò Ole, nel suo megafono da regista.
In un attimo, tutti si dissolsero. Fatima, prima di scomparire per sempre, si fece distrattamente scappare il cellulare dalla tasca, che cadde per terra. Mancava davvero pochissimo, Ole stava praticamente per risalire a bordo del suo ombrello magico per partire verso nuovi sogni da girare, che il signor Lettura si svegliò del tutto.
«E tu chi sei?» disse a quello strano personaggio, con tanto di ciak e sediolina pieghevole tra le mani. A poco servirono le scuse che Ole tentò d’inventarsi al momento, messo alle strette dalle domande incalzanti del libraio. Ci provò per un po’ poi dovette confessare.
«Io… sono il regista dei sogni.»
«Benissimo, quindi vuol dire che il sogno che ho appena fatto è opera tua?»
«Sì, ma ti giuro che il finale era bello! Adesso devo andare… devo lucidare le stelle stasera, perché domani è festa; e poi mi tocca spolverare l’erba e le foglie degli alberi perché tutto brilli e risplenda! Tu assicurati di comportati bene e vedrai che stanotte ti ci porto!»
Lettura, senza farsi altre domande ma anche sinceramente affascinato, accettò la sfida e se ne tornò a casa, sfiancato e privo di forze. Stava per andarsene anche Chiudilocchio, ma una voce che sembrava provenire dal fondo di una caverna lo inchiodò.
«Mascalzone, ascoltami!»
«Chi parla?»
«Sono io, Funcino! Sono rimasto tutto questo tempo ad ascoltare perché Fatima ha fatto cadere il cellulare per terra… e sono anche in vivavoce! Sei solo un imbroglione, le stelle non si possono lucidare!»
«Amico mio, se ho imparato qualcosa in mille anni di viaggi è sicuramente che chi non crede nei sogni non merita di godere dei piaceri della vita! Quindi, Capitano, lei rimanga pure lì con la sua voce arcigna… che io me ne vado a lucidare le stelle!»
Francesco Teselli
L’immagine di copertina è Pila di libri di Bruno Benfenati