Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Leonardo Guzzo, Le radici del mare

Un libro d’acqua, un mare di parole, ogni racconto un’onda e la sua carezza, una carezza che diventa storia, frammento e incantesimo.

È questo che riesce a fare Leonardo Guzzo con il suo Le radici del mare, raccolta di racconti uscita nel 2015 per Italic Pequod: scrive formule incantatorie, si lascia possedere dalle malie di quel grande libro che è il mare e ci trascina nel suo vortice, nel risucchio dell’onda che contiene scaglie di vita sonore, parlanti, che si riversano sulla pagina.

Sono narrazioni fantastiche, spesso brevi e incomplete, volutamente sospese, perché non c’è bisogno di dire tutto per sciogliere le vele e prendere il largo, non c’è bisogno di capire tutto, di un racconto, fa dire Karen Blixen a Lincoln Forsner ne I sognatori. Del resto è una stessa fascinazione per il racconto orale che accomuna la sontuosa scrittrice danese e Leonardo Guzzo, entrambi orecchio e tramite, conchiglia che accoglie e libera melodie.

Ne Le radici del mare si narra di mostri marini, come nello splendido racconto d’apertura, “I pescatori di Cork“, il più bello nel suo lirismo venato di sogno e tragedia, ma una tragedia che sta sul bordo delle stelle in cui il destino si addensa; o ne “La risalita” dove per certe atmosfere sembra di essere ricacciati tra le anse del fiume Congo del conradiano Cuore di tenebra.

Si narra di amore nelle sue declinazioni più ossessive, come ne “Il vento se ne infischia” e ne “La mano del diavolo; o in quelle più delicate dove la donna è vagheggiata come una foschia che svapora, una madonna descritta con tratti rapidi e gentili come in “Un altro mare“.

E poi c’è l’incontro con il capitano di Moby Dick.

In fede, Ahab“, scritto come un flusso ininterrotto, il più ispirato, coglie uno dei passaggi più straordinari del capolavoro di Melville: l’attimo cioè in cui Achab si rivela uomo che sa versare lacrime su quella sua vita dissipata e perduta, ma che, ancora per poche ore, palpita, quella vita dolce e rinnegata. E il pensiero gli corre alla moglie bambina a cui ha voltato le spalle il giorno stesso del matrimonio per continuare a divorare i mari fino a farsi venire i capelli grigi: “Ma sembro davvero molto vecchio, tanto, tanto vecchio, Starbuck?“, chiede al suo nostromo. E per cosa, poi? Uomo, dunque, e non solo archetipo della monomania, della ricerca inesausta e demoniaca del mostro che gli ha strappato una gamba, la balena bianca dalla fronte imperscrutabile.

Guzzo concede a Ahab una nuova possibilità di effondersi in quella vena malinconica. Lo coglie così, solo sotto le stelle, il destino a sottrargli respiro e a innalzarlo a simbolo, uomo e mito, eroe dei nostri immaginari collettivi, uomo che ama la sua ombra, l’accetta, e ci danza in una notte, l’ultima, quando le stelle “pulsano e occhieggiano nel buio” mentre la luna “sembra in viaggio tra nubi bianche e schiumose“.

Eppure dovrà morire, domani, su quel mare che ha sempre desiderato navigare “perché ogni essere segue un richiamo più antico di se stesso, per sapere se ha un fondo la solitudine e quant’acqua può riempirla“.

In questo addio struggente, il suo testamento affidato alla notte, Ahab riesce a cogliere il vero volto del mostro: “Venero il mostro, sì. Come i suoi occhi, tanto azzurre, dovevano essere le prime vite a risalire l’acqua. Come i suoi gesti, così ignare, che il cielo non osò toccarle. Sgropparono indisturbate, prede furiose della smania di raggiungere la luce. E ora ritornano da un tempo che hanno smesso di contare, s’accostano alla mole gigantesca e le parlano: a una specie di orecchio, dietro all’enorme mascella deforme di balena, le dicono schiudendosi che non soffrirà alcun male. Perché ogni male che mai potrà essere non passa la cruna della sua purezza“.

E lui, Ahab, in un alito di superbia, desidera quella purezza, come il Maldoror di Lautréamont desiderava la femmina del pescecane, perché nella lotta accanita e crudele aveva scorto il riflesso paradossale dell’amore: “cercavo un’anima che mi somigliasse e non la trovavo“, dice all’inizio; ma poi, vista la vampa l’uno negli occhi dell’altra, esclama: “Ero al cospetto del mio primo amore!“.

Sembra inesauribile il fascino che il mare esercita sul narratore, anche tramite le sue predilezioni letterarie (vi è anche l’omaggio al grande scrittore argentino in “L’atlante di Borges”). Lui vi dà voce perché confluiscano tutte nella poderosa metafora di un mare che, se è inquietudine, è pure senso di patria, è contempazione e meraviglia che conducono in un oltre che funge da mappa emozionale per leggere il presente.

Ne viene fuori un ritratto, quello dell’autore, un giovane uomo che abita una terra ricca di incanti, una terra che affaccia sul mare e sul mare lo invita a perdersi, ma per ritrovarsi con i piedi all’asciutto (come nel piccolo gioiello intitolato “Finis terrae“), al centro di un mondo fatto di voci e ricordi, memorie che sgusciano fuori intatte ogni qual volta si sospenda l’incredulità, si presti loro orecchio e se ne faccia appunto conchiglia, cassa di risonanza che rimanda fruscii e tempeste, le dolci nenie e i baratri agghiaccianti dell’uomo.

Di Leonardo Guzzo uscirà a breve il nuovo libro, Terre emerse, sempre per Italic Pequod.

Rossella Pretto

Le radici del mare Book Cover Le radici del mare
Leonardo Guzzo
Racconti
Italic Pequod
2015
201