Fado, destino, i vivi e i morti nel Vicolo dell’Immaginario
Di Geraldine Meyer
Vicolo dell’Immaginario, ultimo libro di Simona Baldelli, è una favola. È bene dirlo subito, per evitare alcuni fraintendimenti che ne hanno voluto sottolineare, troppo sbrigativamente, taluni passaggi troppo “delicati”. È una favola che, come tale, ha una morale, per nulla nascosta, come ci si aspetta dalle favole. Simona Baldelli è una scrittrice onesta, che non finge di scrivere ciò che non scrive. Ed è in questa ottica che Vicolo dell’Immaginario va letto.
In queste pagine, che in alcuni tratti rievocano l’eco della Ortese del racconto Il monaciello di Napoli, troviamo lo stesso uso dell’allegoria, dell’immagine metaforica, della magia. Ma non parliamo, per carità, dell’abusata (e spesso fuori luogo) definizione di realismo magico. Vicolo dell’Immaginario sono, si può dir così, due storie, di due donne che poi sono la stessa donna. Clelia arriva a Lisbona dopo essere scappata da sé stessa, da un amore a cui non ha dato possibilità, da una vita fatta di lavoro in fabbrica e una famiglia, che proprio come quella delle fiabe, è fatta da una madre incapace di affetto e da una sorella malata.
Come si pensa di poter cambiare? Cambiando città e cambiando nome. A Lisbona Clelia diventa Amalia, per mantenersi farà la dama di compagnia ad una anziana signora che vive attendendo il ritorno del Re Sebastiano I, portato dalla nebbia che sale dal fiume Tago. Per arrotondare, la sera, lavora nella trattoria di Tia Marga, posta in un minuscolo vicolo, Vicolo dell’Immaginario, appunto.
La storia delle due donne che sono una sola donna ci viene raccontata in parallelo, tra viaggi temporali e di luogo, tra l’Italia della strage di Piazza Fontana e il Portogallo che sogna la Rivoluzione dei garofani. Tra il racconto di una vita molto semplice e concreta, quella in Italia, e una vita avvolta di magia e leggenda, quella in Portogallo. E, a fare da sfondo, non solo una Lisbona perfetta per accogliere questa favola, ma anche gli umanissimi rancori, rimpianti, dolori, incomprensioni, parole dette e, soprattutto, non dette. Perché Vicolo dell’Immaginario è, prima di tutto, proprio questo, una favola in cui è possibile pareggiare i conti, dirsi le cose prima che sia troppo tardi, sciogliere le pietre appuntite che si adagiano pesanti nello stomaco.
Tra vivi e anime dei morti che tornano, portate dalla nebbia, uscendo dal Tago in un corteo plumbeo e onirico, Vicolo dell’Immaginario è un’elegia alla parola, al coraggio di affrontare paure e incomprensioni per poter andare avanti. Se il Giobbe di Roth pensava che sotto un nuovo cielo fosse possibile un’altra vita, Amalia/Clelia comprende che sotto un nuovo cielo può esserci solo il percorso per tornare a guardare in faccia ciò che ci ha fatto scappare. Rendendo così il ritorno, in realtà, l’unica vera partenza.
In fondo Vicolo dell’Immaginario ci invita a tenerci stretto il passato ma come eredità non come zavorra, come viatico verso il futuro, non come perenne lutto, come acquisizione, non come perdita. Ma ci invita anche ad essere indulgenti con i percorsi attraverso cui si può arrivare a questa consapevolezza.
Vita, morte, amore, rimpianto, rancore, magia, leggenda. È tenendo a mente queste parole che Vicolo dell’Immaginario va letto, sapendo che la vita non è una favola e che non è questo ciò che il libro vuol fare credere. Anzi. Sono pagine che, con levità, ci raccontano di qualcosa con cui, se si è sinceri, ciascuno di noi si è trovato a confrontarsi. La forma di favola plana semplicemente con leggerezza su questione che leggere non sono. Cos’altro è, altrimenti, quella piccola ombra che, fino ad un certo punto, segue la donna dovunque. Una piccola ombra gentile, per nulla spaventosa. Perché, spesso, a darci apparente sicurezza sono proprio i nostri rancori, ciò che ci siamo rifiutati di capire. Ma è una sicurezza effimera.
E non è per nulla un libro consolatorio. A Clelia/Amalia non viene risparmiato il dolore, le domande e i sensi di colpa. Se trova un modo per fare i conti e se questo, spesso, nella vita non accade, non è colpa delle favole. Quelle servono per fermarsi, anche solo un istante. Non per dirci la verità.
Narrativa italiana
Sellerio
2019
245