GIANNI CELATI, OVVERO L’ARTE DI FAR SALTARE I PONTI
A me capita abbastanza di frequente di non sentirmi all’altezza dell’argomento che tratto. Questo è uno di quei casi. La mia non è modestia ma obiettività perché di fronte all’opera di Gianni Celati, il meno accademico degli accademici e, probabilmente, il più grande scrittore italiano vivente, mi sembra abbastanza inutile tentare analisi e proporre letture. Perché mi sembra inutile? In primo luogo perché non è che il mondo abbia tutta questa necessità delle mie opinioni e poi perché l’incontro con la scrittura di Celati è stata (è ancora) uno delle esperienze più appaganti di sempre per la mia vita di lettore. Di fronte a questo fatto il mio doveroso sentimento di gratitudine tende a tacitare qualsiasi altro argomento.
C’è un libro, in particolare, che considero centrale per la mia vita e, in second’ordine, per la letteratura italiana e cioè Lunario del paradiso. Il romanzo esce nel ’78, quindi un anno dopo quel 1977 che immagino essere stato nevralgico per Celati scrittore, insegnante e educatore. Nello stesso anno, tra l’altro, viene dato alle stampe Alice disambientata, vale a dire il regesto del seminario su Lewis Carroll che lo scrittore tiene nella facoltà occupata del DAMS proprio durante l’annus horribilis (ma anche mirabilis). Se all’altezza di quella data i sogni impattano contro un muro, letteralmente, di piombo ecco che l’arte celatiana comincia a librarsi concretizzando magistralmente spunti e ossessioni dei romanzi precedenti, peraltro già bellissimi e linguisticamenti arditi.
Lunario del paradiso prende le mosse dall’autobiografia dell’autore e dalla colletta che gli amici fanno per spedirlo in Germania, sulle tracce di una ragazza conosciuta durante le vacanze estive, a Marina di Ravenna. Comico, picaresco, attraversato da un entusiasmo che nemmeno possiamo definire giovanile ma addirittura bambinesco, Lunario del paradiso è il trattamento di un film di Pierre Etaix scritto da un Celine gentile, il controcanto canagliesco di pagine e pagine di leggerezza calviniana ma soprattutto è il cuore della narrativa di Celati. Da questo libro pazzesco ecco dipartirsi i sentieri che portano a testi unici come Narratori delle pianure (la tradizione della novella alla sua massima potenza), lo splendido Verso la foce e il fondamentale esercizio di riscrittura dell’Orlando innamorato. Sfogliando le pagine del Lunario ci sembra di scorgere le inquadrature ariose del primo Godard tradotte in una letteratura millimetricamente perfetta ma totalmente anarchica e senza regole, come una gag di Buster Keaton. La grande lezione di Celati, mi sembra, è una lezione di libertà a ogni livello, personale e stilistico. E lui stesso ha saputo mettere in guardia le patrie lettere dallo strapotere del romanzo, forma che sempre più si vuole cristallizzata in manierismi da scuola di scrittura (la struttura in tre atti buona per il teatro, il cinema, la letteratura, insomme tutto ciò che racconta). Celati, come i rivoluzionari di Giù la testa di Leone, nasconde la dinamite sotto il ponte del romanzo e lo fa saltare per aria. Per lui tutto è permesso e tutto si mescola, il racconto col saggio e la poesia con la lista della spesa. Nessun paletto, nessuna costrizione ma nemmeno nessuna certezza preconfezionata. È d’altra parte la linea che segue la bellissima collana Compagnia Extra di Quodlibet da lui curata con Ermanno Cavazzoni: una delle più belle realtà della nostra editoria che ci ha permesso di scoprire, riscoprire e valorizzare gente del calibro di George Perec, Luigi Malerba, Viktor Erofeev intercettati nelle loro opere meno definibili ed esordienti o semiesordienti di valore come lo straordinario Ivan Levrini. Insomma, se Celati, com’è giusto, è approdato al suo Meridiano, stiamo certi che si tratta di un Meridiano imbottito di tritolo, ma un tritolo che fa bene alla salute.
La foto di copertina è presa da L’indice dei libri del mese