Ancora una volta un “libro sensibile” diciamo così. Ancora una volta è la meritoria minimu fax a mandare in libreria (dopo E Baboucar guidava la fila di Giovanni Dozzini) un libro sull’emigrazione, sui confini e le frontiere. Con Solo un fiume a separarci Francisco Cantù ci racconta, con una scrittura tanto scarna quanto potente, cosa accade al confine tra Messico e Stati Uniti a quegli uomini e a quelle donne giustamente definiti i nuovi “dannati della terra.” Cantù, brillante studente di diritto internazionale, con davanti a sé una strada di successo nel giornalismo, decide di entrare nella polizia di frontiera per vedere sul campo cosa accade a quelle persone. Questa esperienza, nelle sue intenzioni, vorrebbe essere un modo per concretizzare la teoria studiata sui libri. Ciò che si troverà davanti sarà molto peggio.
Solo un fiume a separarci, libro per il quale siamo debitori non solo a Luca Briasco ma anche a Fabrizio Coppola che del testo è il bravissimo traduttore, è un testo che ha l’asprezza e il nitore abbagliante del deserto attraversato da tutti i disperati di cui parla. E l’amarezza di chi pensava di potere, come guardia di frontiera, portare un poco di conforto. Molti sono gli elementi particolarmente importanti in queste pagine. Il primo, che non è mera biografia anagrafica, le origini messicane dello stesso Cantù, di nazionalità americana certo ma non dimentico del punto di partenza della sua storia. Il secondo è, senza alcun dubbio, la figura della madre dell’autore. È lei il simbolo vivente e incarnato delle origini di Cantù, ma anche la figura che, più di ogni altro, fa di tutto perché il figlio non perda mai di vista la sua umanità. La donna, ranger nei parchi naturali sa molto bene che qualunque tipo di passione, anche la più autentica, difficilmente attraversa indenne le regole delle istituzioni. La sua perplessità rispetto alla decisione del figlio non è una mancanza di appoggio ma, al contrario, è la voce che lo pungola a mantenere alta la guardia tra un incubo e l’altro che, ogni notte, lo viene a tormentare.
Solo un fiume a separarci è un libro diviso sostanzialmente in tre parti: la prima è quella dell’esperienza di Cantù nella polizia di frontiera, la seconda quella in cui dal lavoro sul campo, passa a quello di intelligence e la terza è quella degli anni successivi alla decisione di abbandonare la divisa. E anche quella in cui ci viene raccontata la storia di Josè, una delle tante persone, immigrate irregolari pur avendo negli USA un lavoro, una moglie e dei figli. Josè commetterà la pazzia di tornare in Messico per stare vicino alla madre morente. Tentare di rientrare dalla sua famiglia negli Stati Uniti sarà l’inizio di un’odissea umana che scuote e commuove oltre a far capire l’assurda cecità della burocrazia e della cosidetta giustizia.
Il muro tanto caldeggiato da Trump ma, per la verità figlio della politica di inasprimento voluta dall’amministrazione “democratica” di Clinton, non è un semplice confine, non separa solo due terre, due nazioni. Ma due mondi. E a farne le spese, spesso, proprio quelle persone che degli USA sarebbero i cittadini migliori e più fedeli. Perché Dio solo sa da cosa scappano quando vogliono lasciare il Messico. Un paese che la retorica turistica dipinge come una cartolina ma la cui situazione sociale e politica non è esagerato definire infernale. Uomini e donne che attraversano un deserto e che spesso vengono lasciati lì a morire se non riescono a tenere il passo. Uomini e donne che, talvolta, pur di varcare il confine, diventano “muli” per i narcotrafficanti, status più prezioso di quello di semplici esseri umani alla ricerca di una vita migliore. Perché i migranti si fermano, la droga no.
Poveri resti di esistenze anonime (anche la questione del nome è centrale in questo libro) di cui la polizia di frontiera trova tracce in bottiglie di acqua abbandonata, zaini e poveri oggetti su cui piscia ridendo sguaiatamente dopo avere tagliato le stesse bottigliette di plastica perché nessuno possa semmai abbeverarsene. Un racconto impietoso, eppure pieno di umano dolore, che ci narra cosa accade quando un concetto come quello di confine e di frontiera smette di essere l’immagine di un altrove migliore per diventare l’immagine di una politica miope e meschina.
Reportage narrativo
minimum fax
2019
263