Cile, i sogni di una generazione. Dove finisce la terra comincia l’utopia.
Di Alessandro Vergari
Nella lingua degli indios Aymara, la parola “Cile” indica un lembo di territorio incastrato tra la cordigliera andina e l’Oceano Pacifico, insidiato dal deserto di Atacama a nord e stretto, a sud, dalla fredda regione antartica. “Cile”, ovvero Là dove finisce la terra. È questo il titolo del graphic novel creato da Désirée e Alain Frappier, duo francese, rispettivamente scrittrice e disegnatore, pubblicato di recente in Italia da Add Editore, con la traduzione di Silvia Manzio. Un libro elogiato da Annie Ernaux, che lo ha giudicato “di una chiarezza esemplare”.
Là dove finisce la terra. Cile 1948 – 1970 è la storia di un incontro fortuito e fortunato, risalente all’ultimo giorno dell’anno del 2013, complice una festa di Capodanno organizzata in casa di amici comuni. Scrive Désirée Frappier, in appendice:
“Quando è arrivato, Pedro si è seduto sul divano di fronte a quello su cui mi ero appena seduta io. Sapevo che era cileno, che aveva conosciuto e subìto la dittatura. Mi è parso di percepire nei suoi gesti qualcosa di simile a una volontà di mostrarsi a suo agio. Mi sono riconosciuta nel suo contegno, quindi ho rotto il ghiaccio aiutandomi con Manos en la nuca, una delle mie recenti letture, in cui Ángel Parra evoca, con un umorismo tipicamente latinoamericano, uno degli episodi più neri della repressione cilena. Pedro ci ha messo un po’ a rispondermi. Ha cercato le parole, poi ha lasciato da parte Ángel Parra e le sue mani sulla nuca per evocare sua madre, Violeta Parra, ‘una delle più talentuose e preziose che il Cile abbia mai conosciuto’”.
Pedro è Pedro Atías, figlio di Guillermo, intellettuale socialista che contribuì a scrivere il discorso di ringraziamento agli elettori di Salvador Allende, appena eletto alla Presidenza, nel 1970. Là dove finisce la terra è la storia di Pedro e della sua famiglia, originaria del Libano ed insediatasi nel paese sudamericano a inizio Novecento, dopo che il nonno Antonio, soprannominato sbrigativamente dai locali il “turco”, nomignolo condiviso con tutti i migranti arabi giunti a migliaia dalle province dell’allora Impero Ottomano, sbarcò laggiù, nell’agognata terra promessa, “l’Amrik”, per poi sposare una donna del luogo, Julieta.
Il Cile, nazione-pilota di esperimenti politici all’interno del vasto continente sudamericano, occupa un ruolo emblematico e strategico nella storia mondiale. Pedro attraversa un mondo in profonda trasformazione, governato dalle superpotenze e conteso da blocchi d’interesse contrapposti. Le tensioni sociali aumentano, esacerbate dalle pressioni americane per mantenere lo status quo capitalista da una parte, e dal ribollire dei movimenti di estrema sinistra dall’altra. Guillermo Atías, uomo progressista di formazione marxista, innamorato della cultura europea, iscrive il figlio Pedro alla scuola gestita dall’Alliance Française. Sono gli anni Cinquanta. Pedro, figlio irrequieto di genitori separati, alla disciplina imperante nei vari istituti, alle regole di decoro tipicamente “borghesi”, preferisce il cinema, il calcio (nel 1962 il Cile ospita la Coppa Rimet, vinta dal Brasile magico di Pelè), la spensierata e avida lettura di libri, assiepati nella grande biblioteca paterna.
Intanto, le “sperimentazioni” dell’Intelligence statunitense prendono forma nella cosiddetta Scuola delle Americhe (SOA), a Panama, fucina di dittatori filofascisti, Augusto Pinochet compreso. Un centinaio di studenti cileni sono inviati a Chicago, dove insegna il celebre professor Milton Friedman, ideologo del neoliberismo estremo e fautore di uno Stato meno che minimo. Due classi dirigenti, del tutto incompatibili, vengono così a crearsi, sedotte dal canto di sirena di ideologie contrapposte e antitetiche: un variegato insieme di posizioni di sinistra, tanto attirato dalle imprese di Fidel Castro e Che Guevara quanto ispirato alla pedagogia orientata agli oppressi di Paulo Freire, contro un blocco sociale conservatore, destinato a rivolgersi, per reagire con spietata prontezza al “pericolo rosso”, al braccio armato del potere militare.
Pedro non solidarizza con il mito di Kennedy. Il ventidue novembre 1963, giorno dell’assassinio di J.F.K., il giovane Atías è affranto per la contemporanea dipartita, declassata a notizia di second’ordine sulle pagine dei giornali, di Aldous Huxley, l’autore de Il mondo nuovo, accompagnato alla morte da cento gocce di LSD. L’Alleanza per il Progresso voluta dal presidente americano non era forse la risposta geopolitica alla trionfante rivoluzione cubana, in procinto di infiammare, a mo’ di esempio vincente, un intero continente? Il programma del presidente cileno Eduardo Frei, cattolico, si dimostra legato a doppio filo al paradigma riformista dei democratici statunitensi. Un programma, nonostante le buone intenzioni, incapace di risollevare le sorti degli indigenti. Poveri e ricchi restano separati da un abisso di diseguaglianza, una situazione di ingiustizia aggravata dalle perduranti divisioni etniche e dal divario, quasi antropologico, tra gli umili braccianti e i latifondisti, proprietari di sconfinate e fertilissime terre.
Il passaggio più entusiasmante di Là dove finisce la terra è costituito dalle tavole in cui è rappresentato un romantico viaggio giovanile, azzardato da Pedro, con un paio di compagni dell’Instituto Nacional. I tre si muovono in autostop da Santiago a Puerto Montt per imbarcarsi poi, illegalmente, su una nave, fino a Punta Arenas, oltre lo Stretto di Magellano. Lungo il percorso, il protagonista scopre le differenze tra sé, educato alla laicità e plasmato in un ambiente culturale filomarxista, e gli altri due, custodi di pregiudizi latenti e pronti a sfoggiare istinti insospettabili. Rodrigo e Agustin, provenienti da famiglie di estrazione medio-alta, orgogliosi del proprio essere cittadini, si abbandonano a commenti razzisti verso i miseri ‘mapuche’, gli indios del luogo, abitanti originari di quelle lande bellissime e immacolate, inoltre palesano timore nei confronti dell’autorità costituita, e, come se non bastasse, si rifiutano di scendere tra i reietti della terza classe, ragazzi come loro, solo più autentici, più “proletari”. Le meraviglie del viaggio, però, fanno vacillare le certezze ideologiche di Pedro. A Punta Arenas, zona franca alla fine del mondo, nessuno resiste alla tentazione di acquistare dei veri jeans americani, marca Lee, freschi d’importazione, nonostante la pretesa ostilità agli “yankees” e all’american way of life.
“’Yankee’ era l’insulto che usavamo per esprimere la nostra avversione nei confronti degli Stati Uniti. Un’avversione che metteva di fronte alle nostre contraddizioni: detestavamo gli yankee, ma adoravamo i loro jeans, così come la loro musica e il loro cinema. Avremmo preferito non amarli, ma era più forte di noi! Era una delle numerose vittorie di quello che chiamavamo con disprezzo ‘imperialismo americano’”.
Pedro si iscrive a sociologia, si imbatte nel Sessantotto, entra nel MIR – Movimento della sinistra rivoluzionaria, incontra la nuova musica cilena incarnata da Violeta Parra, si reca come volontario presso le comunità contadine, al fine di promuovere un’istruzione di base imperniata su processi educativi democratici, fonda una compagnia teatrale d’avanguardia, il ‘Teatro Aleph’, con l’obiettivo di… reclutare ragazze. Il romanzo di formazione prosegue, seguendo, fedelmente, il sorgere della coscienza civile e politica di una generazione. Là dove finisce la terra fotografa un periodo saliente della storia collettiva di un popolo, segnato da tappe pericolose, elettrizzanti: le rivelazioni sul ‘progetto Camelot’, ideato dal Dipartimento della Difesa americano in funzione anticomunista, spaventano l’opinione pubblica; l’esercito si ribella ai tagli di bilancio e minaccia un colpo di Stato; la piazza, riempita da studenti e operai, replica con fermezza alle tentazioni autoritarie; la teologia della liberazione sfida le gerarchie e le ingessature morali della Chiesa; il mito della rivoluzione cubana si radica nel profondo, soprattutto nelle classi subalterne. Allende perde tre elezioni, ma vince la quarta, sostenuto da una vento di speranza mai spirato prima. Una vittoria epocale, che spacca in due la storia cilena, sudamericana, mondiale.
Il tratto di Alain Frappier è caldo, partecipe, e si scioglie in chiaroscuri che rimandano al drappeggio delle vecchie trasmissioni televisive in bianco-e-nero. Intere tavole sono occupate da incursioni nel paesaggio naturale, soprattutto marino, aperture emotive, orizzontali, protese al sublime. Altrove, le inquadrature, sature di volti, di corpi, consentono di immaginare masse accalcate ai margini del visibile, presenze ansiose di calcare il proscenio, di cavalcare gli avvenimenti. La stasi dell’infanzia cede il passo al movimento inquieto dell’adolescenza, il dinamismo collettivo si impone, man mano, sull’esperienza singola. I protagonisti sono spesso raffigurati nell’atto di avanzare, anche frontalmente, in direzione del lettore; oppure sono disegnati con gli occhi spalancati, luminosi, piantati su un punto di fuga indeterminato, fuori quadro. È la fame di futuro a spingerli, a rassicurarli. Loro, i rivoluzionari felici, vitali, sorridenti, sembrano voler bucare la pagina e irrompere nel presente, per interpellare noi, testimoni disillusi di utopie tramontate, alla ricerca di una ragione nascosta tra le cicatrici della Storia.
Là dove finisce la terra. Cile 1948 – 1970 sarà seguito da un secondo volume, ambientato negli anni della presidenza Allende, dal 1970 al 1973. La lettura dell’opera cade in un periodo storico particolarmente ostile alle sinistre sudamericane, oramai ridotte al postchavismo dell’imbarazzante e fallimentare Nicolas Maduro in Venezuela, al socialismo “indigenista” di Evo Morales in Bolivia e al progressismo gentile degli eredi di José Mujica in Uruguay. Le destre, con sfumature populiste o filofasciste (vedi il terribile Bolsonaro in Brasile), governano quasi ovunque. In Cile, il milionario Sebastián Piñera è ritornato al potere nel 2018, sconfiggendo al ballottaggio il candidato del centrosinistra Alejandro Guillier e relegando così all’opposizione il partito socialista di Michelle Bachelet. “È bene e necessario ricordare che la nostra democrazia non è finita all’improvviso l’11 settembre 1973. Essa era gravemente malata da molto prima e per diverse ragioni”. Questa è una dichiarazione di Piñera all’indomani della sua elezione. Nessuna sorpresa. La società cilena non ha ancora fatto i conti con gli orrori della dittatura e la figura di Pinochet desta nostalgia in larghi settori della borghesia e delle forze armate.
Luis Sepùlveda conclude così la sua prefazione (traduzione di Giulia Zavagna): “Questo graphic novel di Désirée e Alain Frappier è un viaggio nella memoria, la memoria del Paese che abbiamo avuto, conosciuto, amato e che – trattenendone il ricordo, con tutto il suo intenso desiderio di giustizia – un giorno recupereremo; quel giorno torneremo a essere cittadini liberi del Paese dove finisce la terra”.
(Désirée e Alain Frappier, Là dove finisce la terra. Cile 1948 – 1970, Add Editore, 2019, traduzione di Silvia Manzio, € 19,50)
Graphic novel
Add Editore
2019
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