Dante e Cacciaguida: la chiave di volta per comprendere la Commedia.
Di Graziella Enna
Uno dei canti più significativi della Divina Commedia e’ senza dubbio il XVII del Paradiso, in cui Dante ci mostra il significato del suo viaggio come missione provvidenzialistica voluta da Dio, che, con un’investitura, lo rende profeta. Perciò qui il lettore moderno trova la risposta su quale sia lo scopo del cammino ultraterreno del Poeta, che deve sì indicare all’umanità la via della salvezza, ma anche riferire tutto ciò che ha visto per denunciare clamorosamente errori e storture affinché divengano un monito che permetta di ritrovare la moralità e la pace. Il canto è quello conclusivo di una triade dedicata al trisavolo Cacciagiuda, che si trova nel cielo di Marte tra gli spiriti militanti per la fede, (fu infatti soldato crociato in vita), con cui il Poeta compie un excursus sulla Firenze antica, sulla morigeratezza che vigeva nella città, improntata ai valori della tradizione della famiglia patriarcale, al lavoro agricolo ed artigianale, alla pudicizia ed alla sobrietà dei costumi, prosegue poi descrivendo le famiglie più importanti fino a giungere al lento declino della città dovuto alla bramosia di lucro ed alla corruzione. Dante, dopo aver appreso tutte queste notizie, all’inizio del XVII canto, sente la necessità di sciogliere un dubbio che lo attanaglia, ovvero il significato delle oscure profezie sulla sua vita che ha udito nel corso del suo cammino ultraterreno, che costituisce l’argomento che occupa gran parte del canto a cui è collegato poi il tema della missione profetica. Tenterò di essere quanto più sintetica possibile, ometterò la parafrasi e la sostituirò con un riassunto commentato dividendo il canto in sezioni.
Inizierò con i versi 1-27
Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi; 3
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito. 6
Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa: 9
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca». 12
O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi, 15
così vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti; 18
mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto, 21
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura; 24
per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta». 27
Il canto si apre con il mito di Fetonte (tratto dalle Metamorfosi di Ovidio), che si reco’ dalla madre Climene per sapere se era veramente figlio di Apollo ed il dio per rassicurarlo gli permise di guidare il carro del Sole, ma fu fulminato da Giove per non aver compiuto il percorso abituale. Fetonte diviene così l’esempio della necessità da parte dei padri di non essere accondiscendenti di fronte alle richieste inadeguate dei figli. Dante usa il mito per indicare la sua trepidazione (chiedere al suo avo le spiegazioni delle profezie oscure udite su di lui), che viene avvertita sia da Beatrice che da Cacciaguida. Beatrice lo esorta a manifestare il suo desiderio così che, come un assetato, venga appagato. Dante si rivolge al trisavolo chiamandolo “piota” cioè pianta del piede, nel senso metaforico di radice, ceppo della sua schiatta che si è’ innalzato in cielo in modo tale da poter conoscere le vicende terrene prima che si verifichino vedendole in Dio in cui passato e futuro è eterno presente. Ciò è comprensibile, aggiunge, così come le menti mortali capiscono che in un triangolo non possono coesistere due angoli ottusi. Dante afferma che, durante il suo viaggio insieme con Virgilio nel regno infernale e nel monte del Purgatorio, ha udito inquietanti parole sul proprio destino che l’hanno però reso ben saldo ai colpi della sorte (usa la parola tetragono che indica una figura geometrica ben solida e stabile). Perciò è’ pronto ad apprendere cosa gli riservi il destino perché una freccia prevista arriva più lentamente.
Così diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa. 30
Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle, 33
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso: 36
La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno; 39
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende. 42
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia. 45
Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene. 48
Dante rivolge tali parole all’anima luminosa, così come gli aveva indicato Beatrice. Cacciaguida, padre amoroso, circondato di luce e di beatitudine, rispose a Dante non usando un linguaggio oscuro e fumoso da cui i pagani si lasciavano irretire dagli oracoli prima che fosse ucciso Cristo, ma con chiare parole e con un linguaggio preciso (usa il termine “latino”, come sinonimo di linguaggio. Nella lingua sarda e’ penetrato questo termine col significato di chiaro, evidente, ndr). Cacciaguida inizia a spiegare la prescienza divina secondo cui tutto ciò che accade nel mondo e’ già scritto ab aeterno nella mente di Dio, ma non necessariamente accade perché l’uomo non venga privato del suo libero arbitrio, così come un’imbarcazione discende giù per un fiume a prescindere dallo sguardo che la osserva. Pertanto dalla mente di Dio, come una dolce musica giunge alle orecchie da un organo, egli vede ciò che accadrà a Dante. Così come Ippolito fu costretto a lasciare Atene dal padre Teseo, perché ingiustamente accusato dalla matrigna Fedra di averla insidiata (Ovidio, Metamorfosi), allo stesso modo a Dante sarà necessario allontanarsi da Firenze.
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca. 51
La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa. 54
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta. 57
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. 60
E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle; 63
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia. 66
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso. 69
Tutto questo si vuole e si predispone in un luogo dove ogni giorno si mercanteggia Cristo. Cacciaguida allude alla curia papale corrotta dalla mondanità e dalla pratica della simonia ed alle manovre politiche di Bonifacio VIII che tramava per far trionfare i Guelfi Neri a Firenze e scacciare i Bianchi. La responsabilità sarà attribuita alla parte lesa dall’opinione pubblica, come sempre accade, ma la punizione divina sarà la prova della verità, cioè la falsità delle accuse contro i Bianchi. A questo punto arrivano per Dante dolorose parole: egli sarà costretto a lasciare tutto ciò che gli è più caro, perché questa è la più immediata e dolorosa conseguenza dell’esilio (usa la metafora dell’arco che scaglia la freccia dell’esilio). Egli proverà com’è amaro il pane altrui e com’è faticoso scendere e salire per le scale altrui: si allude ovviamente all’ospitalità che Dante riceverà presso diversi signori. Ma la cosa più dolorosa che dovrà sopportare sarà la compagnia empia malvagia e sciocca dei fuoriusciti Bianchi che si rivolteranno contro di lui, ma ben presto saranno loro ad averne le tempie rosse di sangue non certo Dante: ci si riferisce al fatto che entro’ in rotta con i compagni di esilio perché non condivideva le loro scelte di rientrare in patria con la forza, ad esempio con la battaglia della Lastra nel 1304 ed altre azioni violente, da cui prese le distanze e per cui venne considerato una sorta di traditore. Viene usata la parola valle per indicare l’esilio e la sua condizione dolorosa in riferimento alla biblica vallis lacrimarum. Il comportamento dei suoi compagni sarà la prova della loro condotta dissennata per cui sarà onorevole per Dante “fare parte per se stesso” cioè essere super partes ed abbandonare il loro partito.
Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello; 72
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo. 75
Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue. 78
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte; 81
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni. 84
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute. 87
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici; 90
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente. 93
Cacciaguida svela il futuro prossimo a Dante: troverà ospitalità e un primo rifugio presso signore di Verona che ha un’aquila sopra una scala nello stemma nobiliare: egli sarebbe stato così benevolo e premuroso nei suoi confronti tanto da prevenirne le richieste (“quanto al dare ed al domandare tra voi due, sarà primo chi di solito tra gli altri, e’ l’ultimo”). Avrebbe poi conosciuto l’illustre Cangrande I (Dante gli dedica il Paradiso nella famosa epistola XIII), che, influenzato dal cielo di Marte, avrebbe compiuto imprese degne di nota. Ancora il mondo non si era accorto di lui, continua Cacciaguida, perché mentre lui parla, ha solo nove anni, ma prima dell’inganno del papa guascone (Clemente V) nel confronti dell’imperatore Arrigo VII (il papa francese aveva convinto Arrigo a scendere in Italia nel 1312 ma poi gli divenne ostile incitando i Guelfi alla ribellione), le prime scintille del suo valore si sarebbero manifestate nel non curarsi delle ricchezze e delle fatiche delle guerre. I suoi atti di generosità sarebbero stati noti a tutti a tal punto che neppure i suoi nemici avrebbero potuto tacerne. Dante si dovrà affidare a lui ed ai suoi benefici, molte persone per opera sua avrebbero cambiato il loro status sociale, sia ricchi che indigenti; Cacciaguida esorta Dante a custodire queste informazioni nella memoria e a non rivelarle a nessuno. E aggiunse cose incredibili anche per coloro che sarebbero stati presenti.
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose. 96
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie». 99
Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita, 102
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama: 105
Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona; 108
per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi. 111
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro, 114
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume; 117
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico». 120
Cacciaguida continua col dire a Dante che tutte le parole pronunciate sono le spiegazioni relative alle oscure predizioni ricevute e sono insidie che lo attendono nello spazio di pochi anni. Tuttavia esorta il suo discendente a non nutrire odio nei confronti dei suoi concittadini dal momento che la sua vita si prolungherà ben oltre il tempo in cui le loro malvagità saranno punite. Poi tacque dopo aver soddisfatto i dubbi di Dante, avendo posto la trama, con le sue risposte, sull’ordito predisposto dal Poeta (la metafora della tessitura viene anche usata nel canto di Piccarda), perciò egli inizia a parlare come una persona che, piena di dubbi, chiede consiglio ad un uomo saggio, lungimirante ed affettuoso come il suo avo. Dante esprime la consapevolezza dei pericoli che incombono su di lui portati dal tempo minaccioso, per infliggergli un colpo tale molto più difficile da sopportare se lui si abbandonasse, perciò è’ opportuno che si armi di prudenza, visto che gli sarà tolto il luogo a lui più caro, almeno non vuole rischiare di perdere gli altri luoghi a causa della sua poesia. Ed ecco quindi che apprendiamo il dilemma più spinoso per il nostro Poeta. Egli nel regno infernale e nel Purgatorio dalla cui cima fu innalzato in Paradiso dagli occhi di Beatrice, ha visto e udito cose, che, se riferite in terra, risulteranno a molti estremamente sgradite; del resto però, se si dimostrerà timido amico della verità cadrà nel discredito dei posteri. Che fare dunque? Rivelare senza remore o occultare parte della verità?
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro; 123
indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca. 126
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna. 129
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta. 132
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento. 135
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note, 138
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa, 141
né per altro argomento che non paia.
La luce, splendente come una gemma, di Cacciaguida, lampeggiò come uno specchio d’oro colpito da un raggio di sole e rispose dicendo che chi ha la coscienza sporca per proprie o altrui colpe sentirà l’asprezza delle parole di Dante, tuttavia egli, non deve discostarsi dal vero, ma rivelare con chiarezza tutto ciò che ha visto e chi ha motivo di dolersene si lamenti pure. E’ divenuta proverbiale l’espressione “lascia pur grattar dov’è la rogna” perché appartiene ad un registro linguistico non certamente degno del Paradiso, ma sicuramente è’ un effetto voluto commisurato alla meschinità delle persone a cui è riferito. Le parole di Dante inizialmente risulteranno moleste, ma poi una volta metabolizzate diverranno un nutrimento vitale. La verità gridata da Dante sarà come il vento che colpisce maggiormente le cime più alte degli alberi e ciò è motivo di grande onore. Perciò nei cieli, sul monte del Purgatorio e nella valle dolorosa dell’Inferno gli sono state mostrate soltanto le anime di persone famose, perché l’animo di chi ascolta non si appaga ne’ presta fede ad esempi che abbiano un fondamento sconosciuto e nascosto o ad altre argomentazioni che non siano di per se’ evidenti.
A questo punto è chiaro che il doloroso esilio di Dante non è solo un fatto individuale atto a suscitare compassione della sua figura di exul immeritus, ma diventa uno strumento conoscitivo con cui Dante prende coscienza del male e dell’ingiustizia del mondo (la città di Firenze diventa quindi simbolica ed emblematica), perciò con la sua missione profetica scuoterà le coscienze dei potenti gridando la sua verità sulla base di tutti i personaggi illustri incontrati nel suo cammino e si porrà come riformatore politico e religioso nel solco di altri due personaggi che hanno avuto la possibilità di visitare l’aldilà, cioè Enea, fautore di Roma imperiale, e San Paolo restauratore della fede.