Vivo o almeno sembra,
oscilla il ricordo
del gigaro scuro.
Odora di virgo
sopita sui fiori
il cosmo del mio corpo,
Senza padroni e terso.
Lanciai aquile di sogni roventi
a intercettare i tuoi boudoir.
Vivere con un senso
sta nel non tradire i draghi
per un cane da passeggio.
La verginita’ perpetua
sottende costante deflorazione,
tutto e’ ininterrotto albore,
sazio frammento del tuo fiorire.
Ogni altrove e’ una dimora
della linfa incandescente.
In cerchio ho danzato
con corna di cervo.
Creai l’urdu e i testi yazidi,
fondai e assediai la stessa citta’.
Forgiai la freccia
che penetro’ il mio braccio,
sono il demone che rinvenni
nelle cave dei miei sogni,
la grata che nega gli unicorni,
le palpebre morte del sole nero.
Maree senza fine ho resistito
tra due carezze di veglia e di sogno,
e ne ho fatto una gioiello d’uovo,
oltre gli alleli e i Flammarion,
seconde nozze di Lazzaro
con se stesso, incisura angelica
di folgore senziente.
I tasti d’avorio
del nottilucente pensare
ho dato ai poveri.
I calici e le giunche
dei primi noviluni.
Redimo il perplimere degli universi.
La forza non sarebbe forza
fuori dalle mie madrase,
e dove si abbevererebbe
l’eternita’ se io non fossi?
Ero e sono l’identico fuoco
che genera tutte le ombre,
l’alito al preludio
che galoppa in tutti i corni.
Per sempre antecedo.
Eppure solo il mio sangue
puo’ essere versato
e se apri una bara
nell’oscurita’ alcalina,
e’ sempre il mio corpo
a corrodere soppresso
nel mistero levogiro.
Punta due rupie sul mio orrore e
avrai voltastomaco e vincita sicuri.
Mia e’ la peste partoriente
e i cervelli che hanno fallito
in una cella d’osso irrorata.
Io sono Stalingrado e Gaugamela
e al contempo la codardia
che rimanda la fioritura della carne,
la cerva fremente che tentenna
una nuova stagione.
Un’inderubabile stella de facto.
Ho vagato nella palude e
con le serpi barattato la pelle.
Socio fondatore dell’inferno,
ho brindato coi demoni,
riformulato i loro giuramenti,
ora di mia proprieta’.
Ma anche a Dei di sovrana
luce ho dato asilo,
la doppia fratellanza ho stipulato.
Non vi e’ piu’ da scegliere:
ogni passo e’ verso ovunque,
un ovunque di nuove origini
che si feconda e si da’ nascita.
Ignori quali artiglierie
ha visto questa carne,
ne sai solo lo scompiglio.
Ho posto i piedi tra i fantasmi
e calpestato deserti di cadaveri,
di ghiandola in ghiandola i veleni
son più volte giunti al cuore
dandogli una forma che
la croce non sostiene.
Ignori il contrabbando di luce
e di notte che non dà pace.
Così oggi rido
coi denti seghettati
dello squalo sazio:
ai vostri figli mostro
la carne torturata
da una gioia distante,
porto notizia
di un delirio giungente,
ne indico la via.
Pregusto la piena che erompera’
gli argini del cuore umano.
Sulla maschera di Humbaba
ho meditato, rampicando
fiori bluificati ed aurei
ho posto colori adeguati
nell’occhio rinascente.
Rimboccato in sepali
di eterne avventure
sacrifico i millenni con tutti
i miei figli all’interno.
Lasciai entrare negli occhi
le epilessie scomode della
meta’ non vissuta della vita.
Passeggiai tra le conte dei morti,
all’ombra filamentosa di
belle époque equinoziali.
Non sapendo quanti piedi
misura il retro della vita,
potevo giusto sillogire
riguardo la compiutezza,
con fortuna avrei potuto vederla,
ma non ne avrei mai contato i capelli
uno ad uno con le labbra.
Redimo il perplimere degli universi.
Vedrai una stella uscire
dalle mie ossa e viole infinite
crescere sui resti
del Precambriano che sono e fui.
La velocita’ della luce e’ quella
che il buio impiega a ritirarsi.
Tutto e’ coinvolto
in perpetua schiusura.
Chi cacciava le visioni
adesso ne dispensa,
millenni trasfusi
in un lieve tratto umano,
Metatron in sala d’attesa,
quasar in un tubo di scarico.
Il circadiano e’ in fiamme,
chimera baciata nei globuli rossi.
Un dar via ogni chiave.
Tutto il nostro meglio
ci saltera’ alla gola
sul lastrico di un’estasi nascente,
eterno riapprodare.
E’ infatti in questa giga nera
che incontro la densita’ della mia ara,
criovulcano di contravveleni.
Danzo improtetto la fine del mondo,
si’, essere il fondo dell’oceano,
mentre anche per oggi e’ solo spuma,
creste bianche in allungo sul
senso a malapena delle
farfalle, controvento e tenui,
voce di ghiaccio che si frattura,
di fiore che si fraziona.
C’e’ qualcosa la’ sotto, en travesti,
guarda bene, dietro di te,
nel grigio di un jogging infinito,
internati in questa Manhattan
vuota a perdere potremmo essere
ovunque, camuffati, chimerismo
di uno scrigno di gioia.
Scende un coro dalla Circassia
dei nostri lenzuoli, un raggio
di luce prenatale, carta da lettere
di fotoni (tutto cio’ che abbiamo),
pantomima dell’individualita’.
C’e’ solo l’intravisto a mantenermi desto,
indefinire mi si addice, il resto
e’ vestigia, Cinecitta’ di guinzagli.
Tale e’ il bene della
mia follia incompiuta.
Il cielo e’ una giara
e stando alla carne
indubbiamente e’ l’ora,
l’insondata vigilia,
canali scavati da pioggie
ancora a venire.
pettegolezzi su cio’ che abbiamo
sperso nel futuro.
Nel dissesto tutto sugge.
E’ l’essere carcerieri della luce
che ci fa prigionieri del buio.
Gli istanti si distraggono
in meraviglie d’amnesia.
E’ giacendo con tutte le
leggi che ne siamo sollevati.
Questa vita e’ un cosmo in vitro,
e’ il senza tempo in moto
e il suo procedere e’ il trono
immobile dell’anima.
Invigilabilmente procede.
Io sono la sete senziente,
salace Regina di Saba, e
se non ne ascolti il suono
l’anima si contagiera’
della mortalita’ del
corpo.
Essere la fiamma o il fumo
di questo ardere audace.
Chiamami Belial, immeritevole,
insoggiogato e senza aurore,
purche’ possa approdare.
Tutto ha un’occasione
se e’ l’anima a concederla.
Le laurisilve fossili
sono qui, nei miei lombi
e nel mio timo inattuato,
per questo non mi sono negate
le contemporaneita’.
Ho ascoltato l’arringa
dell’incappucciato che fa a pezzi
gli asini sotto la caldaia
dell’ultimo inferno:
scandalo e tributo
mi vanno stretti adesso,
l’anima e’ migrazione che non dimentica.
Cio’ che e’ passato fuggevolmente
su una spiaggia obliata,
tornera’ un giorno ad
abitarla.
Dietro a un tale corrodersi
supremamente l’anima mormora.
Ausculto il sole trattenuto
nella carne e nella tenebra,
cresco e gioco con la pioggia
e col disastro. Stanzia con me,
ama ciò che infrangi,
infrangi ciò che ami.
Conflagreremo nei lineamenti di Dio.
Notte atempore,
tu che inghirlandi il vuoto
e cingi i tuoni e le belve,
non sei che l’abito nuziale dell’anima.
Se non hai indugiato, ringhiato
e cacciato col branco della notte,
perso le tue tracce in Antartide,
diviso la sete dei titani,
fatto carbone delle tue mani
per toccare un’implacabile eclissi…
se non sai niente dei bassifondi
e non hai brindato a sangue
dalla consorteria degli incubi…
se specchiandoti nei canini della bestia
non hai placato il bisogno di tradire
le belle promesse… se a fianchi
di zaffiro danzante e a bocche
ramate orlarte di miele
non hai dato di temperare
i ticchettii della tua pancia…
come potrai o meno scoprire
se l’universo sarebbe franato
con te e se in te avrebbe
o meno scalato le pareti dell’abisso?
Quanto ancora ti manca amico mio
vestito di bianca seta per conoscere
il meglio della tua anima!
Senza mentori e disitruito,
il tuo petto incerto e’ da sempre
la cornucopia delle stelle.
Inerudito, il futuro non e’ che
il passato di un altro presente.
E’ una risposta assisa nel domani
il potere che genero’ la domanda,
la forza a cui ti abbeveri
e’ la stessa che ti asseto’.
Sono il fuoco che mi brucio’,
Dico il vento che mi rubo’.
Deambulo, e vive l’incelebrabile,
cio’ che fa umano l’insperperabile.
Riavvolgo geometrie di innato sole,
la fanteria delle meteore
dietro la crosta delle citta’.
A te che non sei la farfalla giusta,
incagliata in un mondo di vetri
con un paio d’ali per non volare
e un Orione di nei tra
i seni.
Calpesti anche tu un’aspra schiusura,
l’attimo intrappolato che
se anche producesse milioni di anni
sarebbero i fremiti d’un istante
ricurvo nel guscio.
Le varieta’ di mondi e di facce,
un giro di caleidoscopio
di questo medesimo adesso.
Tutto e’ attuale da secoli,
nuove impotenti versioni
del solito attimo
ibernato.
Millenni sono passati
e non c’e’ mai stato un domani.
Io suonavo i tuoi capelli,
sibarita su un ponte d’astri fissi,
mi versavo sui tuoi piedi,
dormendo senza etnie,
ai primordi, cruore
e acqua di conchiglia,
nei promettenti flutti.
E questo niente mi convince,
il metro a me davanti e’ il mio diario.
L’Avvenire ci ha accerchiato, e’ finita!
Svesti gli abiti di tizio ragionevole
benintenzionato d’intenzioni altrui,
divorzia dalla prudenza ed investi
ogni tuo avere in pulci nell’orecchio.
Appena cuci delle tasche,
sii certo di trovarvi suggelli di morte.
L’aurora e’ questione di millimetri,
traiettorie a cristallo di neve.
Scova il filo spinato che avvolge le arterie,
lascia che la morte estirpi se stessa
dalle tane ribonucleiche.
Non puoi apporvi lapidi né firme in calce,
solo sgranare un rosario di notti secretate,
che se l’acqua si e’ fatta vino
e il vino si è fatto sangue,
il sangue cosa può diventare?
Non puoi additarlo su una mappa
d’inchiostro dormiente: quando
lo catturi sotto al cuscino, divieni
un mero ornamento sul suo tragitto.
Non puoi più attenderlo e
non hai mai potuto cercarlo;
ti sei illuso di vigilarvi
ma hai concupito l’eco
friabile di un aere vuoto.
Rinuncia ad offrire collezioni spillate
di virtù mondate: comete d’oro
brandeggiano ora nel lupanare
e nella mangiatoia. Dissesta
la tua carta dei diritti e osa
quanto puoi sui cardini dell’anima.
Le mie promesse sono sulle tue tracce
e il destino dei falchi è stabilito:
berranno la sorgente del falconiere.
Fluttuano le tue endiadi senza fine.
Tutto è l’anagramma delle tue intimità.
Gioca coi colibrì di mezzanotte
che non si vietano il fiore morente,
bagliori di un astro mai schiuso,
gloria nel segreto elaborata,
Questo universo ora e’ scosso
e incrinato, la sua menzogna
nasconde un ospite assai prezioso:
e’ sempre un guscio rotto a
rappresentare un uovo compiuto.
Incendio notturno…
tu che cerchi la mia carne
e la conosci bene perche’
troppo bene le dai la caccia,
non puoi darmi una pena
che non ospito, ma solo
divorare le fandonie
che giocano a vivere
per un giorno col mio volto.
In fondo, la stella chiamata Assenzio
gravita acuta su misere ore.
Ore di quasi interessante noia
irretite da astri intermittenti.
Dovetti impilare gli altari
e calpestarli come necropoli,
e notti di digiuno,
le suture craniche
di mio padre e mio figlio
come gradini interrati.
Pochi riconoscono alla notte
la virtu’ che concede al sole
di essere sole.
Testimonio l’impossibilita’ di tradire
irrimediabilmente la vittoria
col labiale di un’anima in attesa.
Il trasloco del sole attende
la calpestabilita’ dell’arcobaleno.
Sans papier, molecola in prima fila,
ho perlustrato ogni
motivo,
la liberta’ spetta solo a chi
puo’ farne a meno, la vera
vita a chi frequenta il vuoto.
mutando il greve in tentata luce,
goccia piccola come mercurio
entra in goccia grande, finche’
la fonte e’ stabilita in rivolo fisso.
Allora si apre il grandangolo
e fa suo lo spettro del sole,
concentrando pressioni
di astri immortali in una
cuspide di culla umana.
Tutto si fa oro parlante, l’anima
batte le ali nei passi di iridi
rinnovate. Ma non e’ il termine,
oltre l’orizzonte dell’angolo piatto
pulsano nuovi spazi, inglobando
in una realta’ convessa
il sole che accusavamo
d’essersi spento. Luce propria e
nictofilia, fusione dei cerchi,
gli argini dell’universo sono infranti.
Sereno, permetti alla morte
di incontrare la porcellana
della tua impreparazione
e lasciala sgretolare i
figliastri del tempo infranto.
Guarda ai cocci e al polverio
di cio’ che consideravi un io,
vedrai presto coordinate
in un morse senza inizio.
Il fuoco di Satana non
e’ meno sacro di quello
di Zoroastro, rendiamo
grazie a Lemarchand.
Rimanere se stessi è solo un modo
per rimandare a più tardi
i conti con l’amore. L’odio
e’ goduria scoscesa.
L’anima impreparata non aveva previsto
quanto la gioia fosse prossima,
proprio lì, lungo le foglie
di melissa sotto un ponticello di pietre
pavide e madrigali. È con la gioia
che l’identità dovrà vedersela.
Nei miei vizi i prodromi
di un amore più vasto;
la malattia, Stele di Rosetta
di una più grande
gnosi
oggi costretta al mutismo
dalla fiaba del
passato e del futuro.
Alle fiamme amici,
fiamme sulle tre dimensioni
Macerie prime.
Questa schiena invecchiabile e malcurvante
rompera’ l’asfalto.
I secoli claustrali gemmano
nei corpi maturandi.
La luce protegge ogni
tentato Amleto,
le di lei irreali lune,
grovigli di maggese
fatti nascere solo
per approfittare
meglio di se stessa.
Tresche e mirabilie di
predatrice e preda.
Ero ancora piccolo, col mio
quaderno a quadretti,
sottosopra su di un divano, quando
il piu’ saggio dei Buddha mi
convinse che non potevi esistere,
che eri uno scherzo della mente,
polvere alzata dalle bizze di un
cuore invermito dai
desideri.
Eppure io ti sentivo ancora,
non eri un’androne vuoto,
non certo un’eternita’ spenta,
palpebra chiusa sugli universi.
Approcciai allora un’imam abbagliante,
con lui danzai e ti credetti
intransigente come il sole,
pensai che tu amassi la purezza del deserto,
che volessi ogni cuore consumato
sotto una luce assoluta da una legge ardente.
Eppure ricordavo la tua risata di bimbo,
quando eri l’acqua che salvo’
coloro che io odiavo perche’
non ti amavano. Indubbiamente
facesti le citta’ per l’amore.
Cosi’ tornai dal vecchio
con la lunga barba,
l’anziano padre degli uomini miti,
su di un trono di vecchio legno,
un po’ stufo di depennare
estasi ed ebbrezze dal libro della vita,
circoscritto in una luce
di zucchero che non dolcifica affatto.
Ma non potevi essere tu,
colui che mi carpi’ l’anima,
colui che captai nelle crepe
lasciate dal fulmine,
colui attorno al quale
angeli e demoni orbitano.
Conoscevo il ruggito matrilineare
che offre infiniti seni lattescenti
non solo ai propri figli
ma anche agli amanti insonni.
Allora giunse un alchimista, un satanista,
un satiro dalle corna salaci,
e con lui leccai ogni felce,
e vidi le stelle nella rugiada che
era il sudore del nostro amplesso,
ovunque il fondo della tua gola
mi voleva ancora e ancora
nell’edera, nell’albero di cotone,
nelle scogliere blu. Ma anche questo
era solo un contorto girotondo,
immaturita’ panspermica senza
terraferma per la vera Unita’.
Il tuo vero corpo sfuggiva
dalle mani rozze e
centrifughe.
Ero ancora alla ricerca di te.
Un signore con un kippa mi raccolse
e disse che tu eri un
inconcepibile valore numerico,
pulsazioni di un aureo assoluto,
un’insostenibile corona senza incoronato,
e che noi siamo solo penombre
proiettate dalla tua energia su di una
sposa nera e dormiente chiamata Malkhut,
che perseguiti in quanto ami.
Ma sapevo che tu continui a crescere,
soffi incessantemente nei tuoi flauti
e riempi i mondi di te stesso.
Sapevo che la tua sposa
e’ desta e danza, e multicolore e’ la sua dote.
Impronte perse su un sudario di monsone,
tracce senzienti, soli precari
visti da sotto la pelle del mare.
Questi occhi ebbri scelsi
nel disuso delle moschee battriane.
Eppure il mistero e’ ancora vergine:
astro o abisso, non so cos’abiti
l’interno dei miei passi.
Non ne usciremo facilmente.
Quanti lunghi paradossi,
quante ossa, rotte e rifiorite
fino a far proprie le mostrine
dei demoni. Tutti i predatori,
tutti i cannibali, non sono che
tutori, e il tuo odio il loro
gioco per condurti dove
davvero sei: ovunque.
Tu radica e eradica, come le nubi
fanno di se’, disperdere,
senza casa, di bara in bara.
O bipede, come puoi tollerare
questo mensile di polisillabi, sii indegno,
illibato ed incolpevole.
Ho tagliato gole impermanenti,
come quando il bambino
correva tra le lenzuola stese,
tra il panneggio dei sogni.
Un lampo ha raddrizzato gli
altari biechi, vecchie storie
raggrumate. Assetato di un
fino alla fine che non arriva mai,
Dispendare seconde chance
e’ un potere che non vi concedo,
io vivo del fatidico e non
credo nelle
assoluzioni,
che anche quando appropriate
puzzano di tomba. Le proprieta’
benefiche del perdono
sono una diceria messa in giro
dai cristiani, mentre io mi sono
fatto le ossa sul campo dei Kuru.
Io non tratto… la mia
anima e’
un perpetuo Si’. Non piango
la caccia alle foche
per una pacca sulle
spalle,
e non per la sposa amo la sposa,
sebbene essa sia il mio cosmo.
Il fulmine e l’onda
oceanica sono il mio rifugio.
Se dite che sono il
lupo nero,
tenetevi a distanza dalla foresta.
Siate coerenti e non correte coi lupi,
correte coi cani verso la cuccia
del padrone. Scodinzolate per una
ciottola di avanzi, rinunciate ai canini.
Lasciatemi Briseide,
la Sulamita
e Simonetta Vespucci, non sono
materia che vi compete.
Perche’ ho visto
quanto puo’ allungarsi un’ombra,
e farsi filo,
e cingere il corallo,
e lambirsi al tocco del sole.
Perche’ al paradiso si giunge rovinando,
e il fuori rotta vale mille Piri Reis.
Questo inferno e’ il tuo regalo
e questo Lucifero intransigente,
roveto tra le arterie blu,
non e’ che una collana di gigli.
Ricordo i polsi aperti come fogne vagati,
la testa di volpe che ingoia le galee.
Gemme e liquami
In fuga da un lutto tattile,
sognavo un teatro d’acciaio.
Adesso percorro sogni che
non ho sognato né potrei.
Qualunque cosa io abbia commesso,
il mare e’ ancora li’, e convoca l’alba.
Il tuo seno tagliato dalla luce
mi ricorda una pretenziosa frontiera.
Ma ogni frontiera, credimi, lo e’.
Guardavo il bosco salutandovi
la mia anima in embrione,
miravo nel meglio della cieca erba
il progetto del proprio poetare,
lanciai un pugno di dadi rossi,
(perché il sangue ci tiene ad esser visto)
poi parlai coi capelli davanti agli occhi.
Se un infante ne avesse il potere
mangerebbe sua madre, il mondo,
se stesso. Perché per funzionare
muta se stesso in fame. L’impotenza
gli impedisce di divorarsi.
Bella Salomè cuoriforme,
in tutta la lunghezza di una tigre
graffi un segreto orbitale:
danzando ti facesti l’albero
che si abbatté coi propri desideri,
sognavi di sognare e ti ho baciata,
ho visto già riflesso sul tuo seno
un giorno nuovo, eterno, ricreato.
Che questo bacio calmi le paturnie,
nell’efebia, ora so, l’amore splende:
è Dio che ce l’ha messo e Dio lo prende.
Credetti fossero coincidenze,
respirazioni frante di dubbie angelogie.
Credetti fossero sovrapposizioni,
scuri allunaggi dai passi criptati.
Credetti fossero coordinate,
richiami schiusi d’un senziente oltremare
Infine scoprii essere i lineamenti,
soglie di luce curvata in palpebre eterne
Che io sia il Diavolo e’ fuori dubbio,
che io mi intinga dove neanche osate
e’ piu’ che assodato: sotto la luna
fecondo ogni sorta di dei,
e che io sia il Diavolo
e’ cosa certa. Ma non e’ questo
il vostro problema. La vostra
maledizione non e’ il fatto che
io sia il Diavolo, quanto che voi
non siete Faust, questo e’
il vostro problema. Neanche
il rango di un Valentino
o un Wagner, ma domestici,
raviolai, anime blande e inelevate;
vaghe, iscariote, minuali,
a cui un Diavolo fa comodo:
il mio vento fondo e ardente
circola libero di leccare ogni driade
e vi da’ una scusa per non uscire.
State a casa che il lupo e’ di ronda,
nascosti nelle cucine, tra le salse,
la ricotta e i ravioli, che un giorno
dovrete ben servirmi, perche’
all’Inferno sarete quello a cui vi siete
condannati da soli: saucier
e domestici di un Diavolo
che ha fecondato tutto tranne voi.
La rarita’ cade di due ottave,
i termini medici aumentano.
Lascio accostate le idiri.
L’immagine di copertina è presa da PROGRESSonline