All’amico Ardola, falotico di
sdrucciole
Riverso, di
traverso, (ma ora mi raddrizzo,
tremulo o
eretto), seduto e spampanato di
capricci, ma friggente il sedere
bruciante di cinetiche erranze (si
raggrumano, flebili e frenetiche,
sullo spigolo dello zigomo afono),
ora, dico poco fa, (l’ora è il poi,
serve dirlo, o siamo sciumuniti?)
mi sono dettato, camminando,
ricurvo
sotto i moniti dei riccioli, residui
elettrizzati della beatitudine
angelica dalla quale provengo (era
l’angelo, mi dissero, della realtà
colui che visitava; e ancora
m’allontana con schifiltose ali
mosse e
delicate scosse) mi sono
compitato, cadenzata la mano, la
espositiva
secchezza essenziale di un inizio,
uno scrivi di questo-del mormorio
sinistro del vocifierio ridesto, che
mi solletica e tortura-aghetti
di pungenti nonnulla che raspano,
e grattano- cigolii della carcassa
dell’io destrutturato, stridori e
clangori vari ma poco eventuali di
intimo fracasso(la citazione, “scrivi
mi dico odia chi con dolcezza
guida al niente”, ha attraversato lo
spazio algido e neutralizzante
che sta fra l’esperienza di un
mollusco, trepida e fresca, e la
scrittura, timidamente vizza, e mi
ha malignamente deviato su false
e
querule piste; torto verso la
semplice aderenza al palpitare del
bislacco vissuto. Non so. Voglio
impararla questa torpida
insipienza,
del non so…. Mi rallento, e il
veleno raggelante del fiatone- piedi
che scivolano sopra il tapis roulant
della vita vera-quella che svelle
svela spella si sottrae ma non
rivela mi attraversa, con punture di
annichilimento e sparizione,
individuale sociale storica
epocale, con
il murmure del niente, del futile, del
rigirio fatale sull’asse
putrefatto dell’uguale e identico e
infernale…
… rinsavire dalla fuga introflessa
nell’introversione accerchiante
dell’ovale cranio scardassato-,
acritico, ed arreso dopo
l’aereiforme
tip tap delle zampe dell’egorrea
sciammannata e sfiatata, il fuoco
di
artificio del tuo ingegno
postsacrificale, eterodosso,
adesso, ma
ossesso di diligenza nella
punteggiatura muta che non
insegue come
dovrebbe la trota del quid…
…. lasciare sospesi, striduli e
storditi, genuflessi e attraversati
tutti i mondi, compresi i pianeti
disorbitati, che fiancheggiano i
filari delle costellazioni di un
cosmo che aspettava il tuo arrivo
messianico per sbrecciarsi, come
la corteccia di un fico mèzzo-
(Vivacchiava, lui, inesploso e
reiterativo, obliquo e disfatto nella
sua mesta tetraggine di sciupii
ciclici e involuti…l’eccentrico
sfumante che ridesta il clamore
tellurico supermondano,
planetario,
dell’essere, sollecitato fuori dalla
sua mansuetudine parmenidea)
Ecco, ora è il rutilante sollevarsi
dell’immaginazione (il divieto ci
si mette dimezzo): manca la myse
en abyme e l’austera maschera
dell’obbedienza, si protende a
concludere (la metafora del
significante catastrofe, l’apoftegma
erotico che stringe gli
sconclusionati rami del senso, ed
unifica nell’immagine redentrice di
un destino, una fatalità conchiusa)
è lo sventrarsi
dell’individualità socchiuse che
auspichi, la magmatica
sovversione
del geometrico lugubre ed odioso
ordine cosmico, il legiferante e
circolare ripiegamento della vitamorte nelle suo ticchettio di norme
e scansioni, il conchiudere e
vietare l’aperto del nesso e
dell’allaccio, in nome di un
travolgimento scosso, un
impennato
tra-scia-manare che inonderebbe
le secche di te assenti di un
deserto
nientemeno che stellare, di globuli
rossi, di galassie irridenti
irredente di allontanamenti,
luminosi e fatiscenti…
Ora dimentichi la luna
che mozza invita a, eden di
tremolantii infanzie gioiose e
balbuzienti, metamorfosiimmersioni dimentiche, benesseri
esultanti e
promiscui di mare sale brividi
nuotanti, ma ti ridi addosso, di
queste
innocenze desideranti, vecchio
retore dell’impossibile come ti
sbraita addosso risentito il
saxofono, magnificente e lucente a
perdifiato, del ih eh uh oh ah e
dappertutto, ma giammai sarai
così,
olimpico o arrogante…
…. esigo un rude schianto, un
sanguinare ulceroso, un lavico
lavacro di lavande lattiginose, una
lattescescente e grumosa
emersione
di melodismi ondivaghi e feroci,
acuti di soprani, verticalizzanti
ebrezze di starnuti: molli intensità
di sonorità di saxofoni e
tromboni, sfrecciate ustioni di
gabbiani felici, e feriti, di luce,
strazi estesi di nostalgie e futuri,
inazzurrimenti euforici di svoli
interstellari, fusioni olistiche di
atomo in atomo, trionfali
dimenticanze, glorie astruse e
impèrvie, semi di verdeggiante
emozione
da tuffo nelle morbidezze
schiumose e tempestose (oh
impeti oh
sobbalazi, del cuor-cuore)
nell’ondoso mareggiare della
materia,
spirito-anima, pschicamente
alimentata di dialettiche e umidori:
sabbia conchiglie chiglie e
incagliati calli del caos che, sédulo,
sollecita e non sostiene (appoggio
il calice del belvedere, allora: e
mi rimoltiplico e arrotolo, oh tu
vagheggiato di un dialogante
scalare
i gradini di un, oh uh, sublime,
contraffatto di tagli di g- avanzo o
trepido indietreggio,
m’apparto o diparto, mulinare
arroventato di dubitosi chiodi del
laminato intelletto, che implacato,
sminuzza e avvelena. Apologizzo il
dasein, la vernunft, il verderame
dell’opacità dei dividendi, o
celebro il tagliato cateto del
cerebralismo: m’espongo, dunque,
io
fatuo e impolverato, di cimici e
scismi, scissioni da corpi deceduti,
alle correnti e gli spifferi del
divenire, lo smuoversi
postistituzionale della
commozione, del rabbrividito sfarsi
di una
temporalità ominosa ma creaturale
ed indecisa? E se lo strame fosse
rame, e l’oro di adorazione solo e
roco, fioco appena, ma, bada, di
fuoco…
L’immagine di copetina è Mare in tempesta di Claude Monet preso da Finestre sull’Arte