Un’altra vergognosa e dolorosa storia di negazionismo rivive nelle pagine di questo saggio- reportage scritto da un gruppo di giornalisti che affrontano i diversi aspetti del genocidio perpetrato dai Turchi contro gli Armeni nel 1915, ovvero la genesi, l’attuazione e le conseguenze di cui ancora oggi si avvertono gli effetti perché le persecuzioni contro gli Armeni si sono rinverdite in alcuni conflitti odierni.
Nessuno può permettersi di ignorare o occultare una verità ormai palese ed è necessario riflettere su un aspetto fondamentale: i germi che fomentano l’odio e l’intolleranza sono alimentati dall’assenza della memoria. Come afferma l’ambasciatore armeno Ghazaryan nell’introduzione del libro:
“La negazione e la mancata sanzione di un genocidio generano altri genocidi , altri crimini contro l’umanità.”
Il MEDZ YEGHERN, il “grande male” iniziò il 24 aprile 1915, all’inizio del Secolo Breve, con l’intento di sterminare gli Armeni presenti nell’Impero Ottomano e la loro millenaria cultura. Nonostante sia passato più di un secolo, il genocidio non ha ancora avuto un riconoscimento ufficiale dai Turchi che continuano a non assumersi la responsabilità dell’accaduto, anzi lo negano recisamente. Un milione e mezzo di Armeni cristiani furono massacrati o deportati in nome di un’assurda pulizia etnica perpetrata dai Giovani Turchi: gli uomini spesso furono fucilati immediatamente, oppure con le donne stuprate in massa, i vecchi e i bambini furono costretti a marciare per settimane verso false destinazioni in luoghi inospitali e desertici, senza acqua e cibo. Inenarrabili le violenze perpetrate. Molti bimbi furono risparmiati ma, divenuti proprietà dei Turchi, furono costretti a dimenticare le loro famiglie, cambiare nome, professare l’islamismo e divenire piccoli schiavi. Non fu migliore la sorte di molte giovani donne armene, tatuate o marchiate nel viso e nelle mani e rese schiave del sesso.
La prima parte del libro affronta, in primis, il problema del negazionismo turco, del mancato riconoscimento a livello internazionale, dell’ostinato silenzio imposto dalla Turchia. Altro punto molto interessante è il parallelo tra Shoah e Genocidio armeno, solo il primo, senza ovviamente negarne mostruosità e gravità, è universalmente riconosciuto, i processi hanno inchiodato con prove schiaccianti i carnefici, mentre l’altro viene spesso relegato o nel dimenticatoio o, addirittura, ignorato. Le cause sono da ricercarsi anche nella carenza di luoghi precisi della memoria: i villaggi che prima erano armeni sono divenuti turchi, i loro toponimi originari cancellati, i territori attraversati dalle terrificanti marce, i deserti dell’Anatolia e della Siria, fanno da muti testimoni, i beni degli Armeni furono requisiti e infine, i fautori del massacro, sia i comandanti che gli esecutori, sono divenuti alla stregua di eroi nazionali perché hanno epurato la loro grande nazione dalle etnie e religioni diverse da quella islamica. Nel 1919 fu organizzato un processo contro il genocidio e quattro persone furono condannate, non era che un miserabile tentativo di mettere tutto a tacere, migliaia di colpevoli rimasero impuniti. Nonostante tutto il popolo armeno non nutra odio nei confronti dei Turchi, bisogna distinguere, a loro avviso, la gente comune dalle istituzioni, molti Turchi hanno riconosciuto infatti i crimini dei loro antenati ma sono consapevoli che lo Stato e le istituzioni non vogliano ammettere i massacri efferati perpetrati a inizio secolo.
Si passa poi al reportage vero e proprio con la raccolta delle straordinarie testimonianze di alcuni anziani.
A Yerevan, capitale dell’Armenia, il giornalista Alessandro Aramu e il fotografo Romolo Eucalitto percorrono affascinati le vie che conservano, negli atti misurati improntati all’educazione e alla gentilezza degli abitanti, il retaggio di una popolazione antica, di un passato dominato dal benessere e da una raffinata cultura, emergono anche aspetti più recenti come l’eredità del dominio sovietico. Nonostante alcuni quartieri siano poveri e degradati e i palazzi fatiscenti, vi regna comunque una composta dignità. Ed è proprio in questi rioni che vivono alcuni diretti discendenti dei sopravvissuti al genocidio, nei cui sguardi si legge il dolore di rivivere quei tragici eventi: Aharon Manukian salvato all’età di un anno dalla fuga di sua madre con i suoi fratellini dalla città di Van, perse il padre, le proprie radici, i legami affettivi, perché coloro che scamparono alla pulizia etnica furono costretti ad una diaspora; segue la storia di Silvard Atajyan, sopravvissuta alla resistenza. Chi immagina il genocidio come una resa passiva da parte degli Armeni che si lasciarono massacrare, sbaglia: essi resistettero eroicamente ai piedi della montagna del Moussa Dagh, lungo le coste del Mediterraneo, in cinquemila, l’assedio fu durissimo, ma alla fine forse quattromila si salvarono e furono imbarcati su una nave francese. I fatti del Mussa Dagh sono divenuti epici grazie al celebre romanzo di Franz Werfel “I quaranta giorni del Mussa Dagh”.
Altra storia quella di Andranik Matevosyan salvato da bambino dai suoi genitori con una fuga rocambolesca, oppure quella del nonno della giornalista Nazik Asatryan che vide i soldati turchi portare via le persone con la violenza dalle loro case, compreso suo padre che teneva in braccio il nipotino di tre anni; l’altra sua nonna fu massacrata, tragiche furono le vicissitudini dei parenti. Tutti i discendenti preservano la memoria e sono accomunati dalla speranza che il mondo sappia, che i Turchi finalmente riconoscano i loro misfatti. Rilevante è il ruolo che rivestono gli intellettuali d’oggi, in Armenia, in particolar modo le donne che si battono per il riconoscimento a livello internazionale del genocidio: è significativo che le donne armene fossero alfabetizzate anche in quei tempi e ciò le ha aiutate a capire la necessità di salvare se stesse, i propri figli ma anche la propria cultura, come sottolinea la famosa scrittrice armena Antonia Arslan autrice del romanzo su genocidio “La masseria delle allodole”.
Negli anni scorsi, a distanza di un secolo, i cristiani armeni ancora in una situazione di sospensione, tra i negazionisti che non si smuovono dalla loro posizione e la terribile minaccia del fondamentalismo islamico, hanno dovuto subire altri oltraggi. In Siria dal 2011 la guerra ha causato migliaia di morti, feriti, sfollati e nel 2013 la città di Kessab, popolata anche da una nutrita comunità armena, è stata saccheggiata, le chiese profanate, le croci distrutte. Kessab, divenuta il simbolo della persecuzione armena moderna, era già stata devastata dai Turchi nel 1909 e poi subì nel 1915 la deportazione dei suoi abitanti. E anche in questa recente tragedia, il tutto è avvenuto con la complicità ed il benestare dei Turchi. Sorte altrettanto nefasta ha subito la città di Aleppo, alla quale il giornalista Gian Micalessin dedica un drammatico capitolo. La lettura del libro ci mette di fronte ad una dettagliata disamina dei gravissimi eventi accaduti durante la guerra siriana e alle persecuzioni inflitte che richiamano alla memoria luoghi ed eventi teatro dei precedenti massacri, come se in una spirale ciclica di violenza tutto si fosse ripetuto inesorabilmente. E soprattutto viene anche messo in luce il ruolo di alcuni governi di civilissimi stati che consentano che tutto ciò accada.
Altro nodo importante del libro, trattato da Anna Mazzone, è costituito da un conflitto in un altro territorio in cui gli Armeni sono stati perseguitati in tempi recenti, ovvero il Nagorno Karabakh, enclave armena nell’Azerbaigian. Tale guerra e’ stata combattutta dagli Azeri sostenuti militarmente dai Turchi in funzione anti armena, e si è protratta dal 1988 al 1994 nel silenzio della comunità internazionale.
“I morti del genocidio e quelli del Nagorno Karabakh. Il cuore pulsante della Repubblica Armena non ha mai spesso di sanguinare”.
“L’Armenia guarda avanti e lavora per costruire e non per abbattere, per aprire e non per chiudere, in un costante avvicinamento all’Europa , stella polare con la quale sente di condividere i profondi valori cristiani e universali.”
Solo nel 1967 fu eretto il Memoriale del Genocidio a Yerevan, a più di 50 anni dai massacri: nell’Armenia sovietica, era addirittura proibito citare questo orrendo crimine per evitare incidenti diplomatici, ma nel 1965 tramite imponenti manifestazioni fu chiesto il riconoscimento dello sterminio e la costruzione del monumento che in due anni fu edificato. Il Museo del Genocidio sorse invece nel 1995, quando l’Armenia ottenne l’indipendenza, divenendo il luogo di raccolta di un’immensa mole di materiale documentario, oggi anche in versione digitalizzata, e costituisce una forma di rinascita del popolo armeno.
Come ci ammonisce Elie Wiesel, premio Nobel ed ex deportato ad Auschwitz:
“il negazionismo è l’ultimo atto di un genocidio, che lo trasforma in un crimine perfetto”.
Collana Limes
Reportage, storia
Arkadia editore
2015
180 p, ill., Brossura