“Al problema di salvaguardare la propria dignità non aveva mai dovuto dedicare, in passato, speciali attenzioni: lo risolvevano, automaticamente la sua altera bellezza e il prestigio di cui godeva in teatro e nel bel mondo. Con il declino fisico però, e il ritiro dagli ambienti in cui aveva brillato, non le era rimasta altra protezione all’infuori della ricchezza, e la ricchezza non assicura la dignità.”
Forse queste sono le parole che, più di tutte, riuniscono, amplificano e sintetizzano tutto il senso e la disperata forza di questo La primavera romana della signora Stone, qui presentato nell’edizione Garzanti del 1963, con la traduzione di Bruno Tasso. Primo degli unici due romanzi di Tennessee Williams questo testo (non più disponibile neanche nell’edizione di Bookever) rappresenta una sorta di paradigma dell’opera dell’autore americano conosciuto per le sue opere teatrali, rese immortali da alcune memorabili versioni cinematografiche.
Innegabile che questo La primavera romana della signora Stone, abbia, seppure in forma di prosa, molta sua dinamica in quei territori teatrali così ampiamente praticati da Williams. Ed è altrettanto innegabile che, oltre ad uno stile crudelmente elegante, a colpire sia un testo e una storia che paiono nati per immagini. Prima ancora che per idee, dialoghi, struttura e storia stessa.
Karen Stone è un’attrice americana colta e raccontata nel momento del suo declino. Non tanto, o non solo, nel suo declino fisico, che ancora resta una affascinante cinquantenne. Quanto, semmai, nel suo declino professionale, sociale dove l’uno si fa causa ed effetto dell’altro. La signora Stone, dopo essere rimasta vedova, si trasferisce momentaneamente nella città che, più di tutte, fa da perfetto teatro, palcoscenico e cornice: Roma. La città con il suo languore, la luce violenta del sole, i tramonti gialli che si stendono pigri sulle scalinate e sulle facciate dei palazzi, è non solo protagonista del libro, insieme ai personaggi ma, quasi, controcanto fisico della decadenza morale di uomini e donne.
La signora Stone, vittima più o meno inconsapevole di una contessa altrettanto decaduta e, in più ruffiana, resta imbrigliata, sensuale e inerme insieme, del fascino di un misero gigolò, effeminato e pigro che trascorre i suoi giorni facendosi mantenere da ricche e anziane signore, annoiate, tristi ma incapaci di accettare i tagli del tempo, le fratture del tempo con il suo trascorrere, mutando e sfumando le cose.
Il tempo, anche qui, come in altri lavori di Williams, il tempo è centrale, in ogni dove, in ogni crepa. Ed è proprio la negazione che i personaggi oppongono ad esso a causare quei terremoti esistenziali, quei declini morali che finiscono con l’imprigionare tutto come una patina tanto trasparente quanto resistente: “Sì, anche il tempo andava alla deriva. E così il sonno che vagava sulla vecchia città. Se avesse guardato fuori dalla finestra, o se fosse uscita sulla terrazza, avrebbe visto che anche il cielo stava andando alla deriva. Tutto andava alla deriva. C’era qualcosa oltre questa enorme deriva di tempo e di esistenza?”
Un libro assai crudele in cui la sensualità e la sessualità sono tanto più presenti e tese quanto più sono accennate e trattenute, descritte quasi come sottotesto. In questo libro anche il sesso va alla deriva, finalizzato comunque ad ottenere qualcosa, fosse una rivalsa, una conferma o un ricatto.
C’è chi ha voluto vedere in questo libro, come del resto nelle altre opere di Williams, qualcosa di più di un’eco della sua biografia, costellata da depressione, alcolismo, problemi relazionali sia con la madre sia con il padre e anche tracce del puritanesimo in mezzo a cui l’autore è cresciuto. Non so se sia interessante o necessario richiamarsi sempre agli aspetti biografici di un autore per illudersi di comprendere meglio la sua scrittura. Ciò che è certo è che in questo L’estate romana della signora Stone vi sono molti elementi che rimandano a miti e simboli, immagini paradigmatiche e, talvolta, veri clichè. Ma c’è sopra ogni cosa un continuo sottofondo di disperazione, di vuoto e disfacimento. Forse anche per questo, quando uscì il libro, il suo biografo Donald Windham affermò che “La primavera romana della signora Stone è il primo autoritratto romanzato di Tennessee dopo il suo successo, e mostra un tale grado di conoscenza di se stessi da far drizzare i capelli.”
Ambiguità, allusioni, vizi privati e pubbliche virtù, all’ombra di case e terrazzi di Piazza di Spagna, tra uomini e donne che più che persone sembrano comparse della loro stessa vita. Eppure la signora Stone riesce a restare impressa come la figura di una donna comunque lucida e consapevole. E per questo ancora più dolente. Un grande libro che meriterebbe di tornare ad essere pubblicato
Per informazioni sulla reperibilità di questo libro, scrivere a info@lottavo.it
Narrativa americana
Garzanti
Terza edizione 1962