Di Giuseppe Manitta
“Quinta vez” di Maria Pia Quintavalla presenta una poesia creaturale, cioè legata all’atto della creazione e, come questa può essere nella realtà delle cose, al senso della vita e della morte. Eppure si tratta di una continuazione dell’opera precedente, “China”, e con chiarezza non solo viene evidenziato da una nota ad esergo, ma dai riferimenti al personaggio che più volte si mostra. Se due delle cinque sezioni sono esplicitamente ricollegabili a tale prosecuzione, è vero che nella polimorfia del testo, aspetto notato da Maurizio Cucchi nella prefazione, si può rintracciare non solo l’elemento teatrale (cinque le parti come gli atti di un’opera) ma anche una trama sotterranea che riporta a quella creaturalità poc’anzi citata.
China ha raggiunto lo stadio mortuale già nella raccolta precedente e proprio la prima sezione del libro, “Prenatale”, parla della tappa successiva alla scomparsa, che poi così non è, perché i ritratti della morte e della vita, che sorgono emblematici, sono sempre riconducibili alla maternità, in una fase onirica e in un tempo assoluto, ovvero ‘sciolto’, che riportano all’ambientazione sospesa, tra l’essere e il non essere: “Movimenti finissimi e celestiali, quasi primi moti della vita nel grembo, prima del nascere; così ti avevo vista respirare lottare con soavità tenace, prima di staccarti dal corpo, agli ultimi” (p. 16). Questa condizione necessita del carattere visionario e non a caso la vista (oggettiva o figurata poco importa) traccia non solo i lineamenti di China, ma porta la rappresentazione ad un pensiero ulteriore, ovvero alla possibilità stessa della conoscenza: “Incalcolabili fili della vista e dell’udito mi tenevano soggiogata alle ultime tue immagini terrene, e non alle prossime acquose dei senza corpo, cui non avevo accesso” (p. 32).
Ogni parte del libro contiene una base dialogica, legata al ‘drama’ aristotelico, al teatro, e ciò si ripercuote nel processo di indagine della poesia, in cui proprio la ‘fine’, o per lo meno quella comunemente definita tale, può portare ad uno stadio diverso: “Solo la morte purifica. Solo la morte ha potere, tu la compisti integra e bella a redenzione del tuo vivere appartata” (p. 33). Il senso della creaturalità consiste proprio nell’essere prima e dopo la morte, perché la maternità esiste prima della nascita e dopo la scomparsa: “Quando arricciavi gli occhi alla ricerca di qualcosa, veniva a me spontaneo guidarti e dire, Stai tranquilla, ci sono e possiamo ritrovarci ancora. Ma ora, e qui, in questo libero vagare alla ricerca di spazio e tempo diversamente esistiti, entro la corolla dell’essere all’aperto, cui avevamo deciso di votarci per intero” (p. 37).
Il mistero della creazione appare con più forza nelle due sezioni successive (“Mater I e II”), che non sono slegate dalla precedente proprio in seno a quell’idea della maternità sostenuta in precedenza, così come si rafforza il concetto di un tempo oltre il tempo, di una dimensione oltre quella consueta. Il concepimento è proprio questo: un tempo vitale che supera il momento dell’accaduto e che è di difficile definizione (e non poche diatribe affronta oggi la bioetica): “Era figlia già quando nessuno conosceva, / era lombrico molle piccolo / nella tua mano, e silenziosa” (p. 45).
Il cordone ombelicale mai reciso realizza uno dei tratti più importanti dell’opera di Maria Pia Quintavalla. Le voci sono parte sostanziale del verso e sono biunivoche, quindi non procedono solo dall’una (madre) verso l’altro (progenie): “devi tu alla figlia / al suo distacco revocato e fragile / non medicato, il sacrificio / di quelle molte voci, urla e smorfie / le ingiunzioni di stanza in stanza”. China (richiamata anche in “Mater II”, sezione dalla quale provengono i testi appena citati) risorge in terra di Castiglia in “Quinta vez o del ritrovamento”. Qui avviene il compiuto conseguimento del carattere visionario, ma ancor più quello dell’epicità dell’esistenza. Non è un caso che la rinascita in Castiglia, al di là del riferimento alla protagonista, ripropone una tessitura stilistica legata ai cantari medievali, anzi ancor meglio ai ‘canti’, in un processo che per astrazione vede il singolo come proiezione di molti: “e non di China soltanto era la storia / di canti nomadi, / un poco numero e un po’ visione. / Canti d’amore tenero (mendace) / ma alfine dette, altrimenti dette / sue parole, sefaràd segreta, / intente a dire quella fortuna mobile, / inconsueta / di fare e vivere senza movente alcuno / che quel respiro-forma”. Risulta sempre più chiaro che l’opera ha sì un’articolazione aperta (come avverte sempre Maurizio Cucchi nella prefazione), ma parimenti una sua complementarità tra le parti e un filo conduttore nella figura della madre.
Se così intesa, l’ultima sezione è intimamente legata alle precedenti, non solo perché s’ispira a un’opera teatrale divisa in atti, e quindi si riprende l’idea già espressa del ‘drama’, ma soprattutto perché, nel dialogo tra parenti (“Le sorelle”), i vuoti e le riappropriazioni si concentrano sul passato e sui profili che le due persone hanno assunto, ma ripropongono di continuo la relazione di appartenenza con la figura materna. “Quinta vez” è, dunque, un’opera molteplice sull’identità e sulla forma, un’opera composita che va dalla prosa poetica al verso e alla battuta teatrale, ed infine è una meditazione sul mistero della vita e della morte.G
Poesia
Stampa 2009
2018
96 p., Rilegato