Di Geraldine Meyer
Un soffio di vita di Clarice Lispector. Un estremo atto d’amore per la scrittura
“La complessità di questa tormentata rapsodia clariciana provoca rovelli ermeneutici la cui verifica esula da questa sede”. Queste le righe iniziali della post fazione di Roberto Francavilla (che del libro è anche il bravissimo traduttore che, con questo testo ha davvero toccato punte di virtuosismo)) a Un soffio di vita, libro postumo di Clarice Lispector, recentemente pubblicato da Adelphi.
Parole che sembrano fare da lucido controcanto, oltre che da amplificatore, a quelle che la Lispector stessa scrive quasi da subito: “Se mai questo libro verrà pubblicato, che i profani ne stiano alla larga. Giacché scrivere è cosa sacra a cui gli infedeli non hanno accesso.” E, infatti, leggere questo libro richiede proprio un atto di fede, un atto con cui si abbandona sia la logica, sia la classica sequenza di eventi che normalmente ne consegue.
Non si nasconde dunque l’autrice né sarebbe possibile farlo. Un soffio di vita non è un libro facile. Sono queste, pagine in cui ciò che appare come un grandissimo atto d’amore per la scrittura sembrano prendere forma nella dissoluzione stessa della scrittura, nella sua destrutturazione. O decostruzione. Oppure, ancor più spingendosi avanti, un mistero. Quasi come quello che stava per cogliere la Lispector che lo terminò nel 1977, immediatamente prima di morire.
“Un testo – scrive ancora Francavilla – decostruito in partenza […] che non ha per obiettivo una redazione coerente bensì il definitivo esorcismo dell’indicibile, quella piega fra contingenze ed evocazioni, fra sensualità materica e inesorabile caduta nell’abisso della morte incombente”.
Come si celebra dunque la scrittura, immediatamente prima di lasciare questo mondo? A chi affidare domande e pensieri sul tempo, sulla scrittura stessa, sulla vita e sulla morte, sull’indicibile, dunque? A cosa affidarlo? Proprio a un testo che, giustamente, Matteo Moca su minimaetmoralia.it, definisce ondivago. Un testo costruito su una non trama ma sul dialogo tra l’Autore e un suo personaggio, qui una donna di nome Angela. Sarà quindi questo dialogo ad assumere e ad assumersi la responsabilità di interrogare e interrogarsi su parole e scrittura stessa, sull’indicibile e su ciò che mai potrà essere violato.
Se si insiste sul concetto di indicibile è proprio perché questo Un soffio di vita è davvero un omaggio alla scrittura, scritto dall’abisso del silenzio. Un libro che l’autrice vorrebbe fosse letto al buio, proprio sul limitare dall’abbandono. “Ho paura di scrivere. È molto pericoloso. Chi ci ha provato, lo sa. Pericolo di interferire con ciò che è nascosto – e il mondo non è in superficie, si trova nascosto nelle sue radici sommerse nelle profondità del mare.”
Nella frammentarietà di quelli che, a tratti appaiono davvero come frammenti, Lispector sembra interrogarsi sulla sua capacità di essere all’altezza delle parole, nel tentativo di strapparle dall’oblio. Forse anche da qui l’idea di affidare ad un dialogo (che spesso dialogo non è) tra Autore e personaggio il compito di raccontarci come la parola abbia bisogno di andare da una persona a un’altra. Come scrive sempre Matteo Moca: “[…] la parola che finisce per trovare una sua realizzazione nel momento in cui essa si lega ad un’altra persona. […] solo in questo modo, scoprendone l’alterità, essa può far emergere la verità custodita nel profondo dal soggetto.”
Un libro davvero non facile, a tratti delirante di quel delirio in cui la domanda di un orizzonte di senso pare poter scaturire solo da ciò che non si riesce a dire. Come scrisse Emanuele Trevi: “[…] Clarice ci appare prigioniera di un’intensità sovrumana, assorta sul bordo di un abisso interiore, di un fuoco centrale che è anche un nulla, una mancanza, l’ombra di un perpetuo fallimento.” Questo, in fondo, Un Soffio di vita, una mancanza.
Letteratura
Adelphi
2019
193