E alla fine ho pianto.
Riflessioni e sensazioni dopo aver letto “Un romanzetto lumpen” di Roberto Bolaño
Un romanzetto lumpen, di Roberto Bolaño, è stato pubblicato in Italia per Adelphi Edizioni nel 2013, tradotto da Ilide Carmignani. Titolo originale: “Una novelita lumpen”, pubblicato da Editorial Anagrama nel 2002.
“La mia vita in realtà era come un sogno.”
“…i miei passi si facevano sempre più deboli, tremavo sempre di più, mi facevano male le ginocchia, le gambe, l’inguine, lo stomaco, il collo, era come se fossi malata di cancro, ma era anche come se stessi avendo un orgasmo, un orgasmo interminabile e spossante…”.
Un romanzetto lumpen è stato l’ultimo romanzo pubblicato da Roberto Bolaño prima della sua scomparsa. Non vi farò in sé una recensione del libro perché è un testo che ognuno deve leggere e interpretare. Vi condividerò invece quello che ha significato per me e vi spiegherò perché, secondo me, anche se non sia uno dei romanzi più importanti di Bolaño è un suo messaggio d’addio e una metafora di quelle che sono state la sua vita e la sua opera.
Per me, Roberto Bolaño era un essere umano con virtù e difetti come tutti noi ma con il talento eccezionale di aver saputo raggiungere l’immortalità narrando le miserie e i misteri dell’anima. Se non avesse conosciuto sulla sua stessa pelle il dolore, la passione, la vergogna, l’infedeltà, la tristezza, la gioia, la malattia, la morte, il disprezzo, l’esclusione, la nascita, l’amore, l’abbandono, la paura, il bene e il male, non avrebbe potuto scrivere poesie e romanzi che parlassero a ognuno di noi, aprendo le nostre ferite più intime e profonde mentre leggiamo le sue parole. Per me, lui era come un’eclisse, un’anomalia, luce e tenebre che si trovano e si amano, dolore insieme al piacere, poesia. Quando ho letto il “romanzetto”, in spagnolo, la mia lingua madre, e poi in italiano, è stato per me una rivelazione. Avevo letto da poco Tra Parentesi, che non è un romanzo in sé, ma la “biografia frammentata”, così definita dal suo editore, degli ultimi anni di vita di Roberto Bolaño. In questo libro, ci viene presentato materiale raccolto dal 1998 fino al 2003 e ci raccontano le lettere, le presentazioni, le amicizie e frequentazioni, i problemi di salute, e altre situazioni che, secondo me, per rispetto, avrebbero potuto evitare di fare pubbliche. Leggendolo ti senti un po’ come un voyeur che invade la privacy di un uomo che sente che la fine è vicina, che non potrà più scrivere e che lui senza scrivere non vuole più vivere. Essendo esiliato, come aveva detto alla nascita del suo primogenito Lautaro, la sua patria era suo figlio e la sua biblioteca. Poi, da quando era nata sua figlia Alexandra, dedicava ogni libro a loro due. Loro erano il suo più grande tesoro e anche la sua più grande preoccupazione per quando lui non ci sarebbe più stato. In Un romanzetto lumpen i protagonisti, infatti, sono due ragazzi, fratello e sorella, che restano orfani, con una difficile situazione economica ed emotiva, dopo che i loro genitori muoiono in un incidente stradale. “Lumpen” può essere tradotto come una situazione “desolata” e, nella storia, sarà questo sconforto a dare via a una serie di eventi che porteranno i fratelli a vivere situazioni di dolore ma anche di crescita. La voce narrante è Bianca, la ragazza, candida e innocente, che si trova ad essere responsabile di un fratello minore a cui provvedere e proteggere. Questi due fratelli simboleggiano, secondo me, i suoi due figli e la sua angoscia per lasciarli da soli a fronteggiare avversità economiche come quelle che lui stesso ha dovuto affrontare fino alla fine dei suoi giorni. L’altro personaggio del libro non è esattamente una persona ma è una casa: la casa di Maciste. Come vi avevo detto, l’idea di “casa” o “patria” per Roberto Bolaño non era un posto in sé ma una persona, un battito di cuori che l’accompagnavano nella sua esistenza esule, una specie di “corpo”, una “casa viva”. In questo caso, la casa di Maciste, come ci racconta Bianca è esattamente così: “…sembra viva”. Maciste, l’uomo che abita dentro, dopo aver conosciuto la fama, si ritrova tra le rovine della sua vecchia gloria, in una casa in disordine, che cade a pezzi, che è senza luce e buia perché lui, rimasto cieco, non ha più bisogno della luce. Questa casa e Maciste sono, nella mia opinione, il riflesso di Roberto Bolaño mentre scrive, una metafora del corpo e l’anima di un uomo che sta morendo. La casa di Maciste è come un essere agonizzante dove un giorno arriva Bianca. Bianca è la scrittura, la luce, la poesia, quella presenza candida, libera e leggera che va e viene e che vaga per la casa cercando una cassaforte, un’ultima speranza, un tesoro, la salvezza. Con le parole di Bianca, Roberto Bolaño ci racconta la sua disperazione e angoscia ma anche la sua voglia di vivere. Quando Maciste lascia entrare Bianca è come se aprisse la porta alla fantasia, a una presenza che porta desiderio, giovinezza, fragilità, gioia, aria fresca, un raggio di sole, una compagnia, la bellezza che ormai Maciste non può più vedere ma soltanto intuire in mezzo all’oscurità, una puttana che accende e soddisfa i suoi desideri e i suoi istinti. Tutto questo è Bianca, e Bianca è la parola, la poesia. Bianca, al contrario di Maciste, non dorme da quando i suoi genitori sono morti, per lei “…è sempre di giorno”, è condannata alla luce, al dolore, al vivere di sogno, ad aspettare. Tra lei e Maciste succederanno molte cose e per sapere il suo destino e quello di suo fratello dovrete leggere il libro. Vi posso dire soltanto che Roberto Bolaño farà dire a Bianca i suoi ultimi pensieri, da uomo che sa che andrà via presto da questo mondo. Ci dirà che quando arriverà la fine ci sarà tempesta, vuoto e oscurità e il dolore sparirà ma con lui sparirà anche il piacere, cioè, morirà la poesia. Quando ho capito che lui era triste non soltanto per la propria morte ma soprattutto per la morte della poesia che viveva in lui, capì che il suo dolore più grande non era nel corpo ma nell’anima e fu allora che sentì anch’io l’oscurità e piansi
Letteratura
Adelphi
2013
119 p., Brossura