Di Isabella Mariucci
FRAMMENTO 105
Aprì gli occhi, bruciavano, li sentiva gonfi e appiccicosi, non riusciva a vedere nulla, faceva freddo ma grondava di sudore e non capiva se quelle che scendevano sulle sue guance fossero lacrime o fatica, era in piena tachicardia e rimase in posizione fetale per qualche minuto cercando di realizzare chi fosse e dove si trovasse. Lentamente il battito tornò regolare, il respiro si fece meno affannoso e con le mani iniziò a tastare il pavimento.
Era umido, polveroso e scorticato, mise a fuoco qualcosa che luccicava poco distante allungò il braccio e con la mano destra lo afferrò, era un frammento di specchio e lo portò davanti al suo viso.
“Sono un uomo”. Si osservò a lungo.
Il frammento era piccolo e non poteva avere una visione d’insieme del suo volto, doveva spostare lo specchio per inquadrare ogni singola parte. I suoi occhi erano di un colore indefinito tra il verde e il castano, erano lucidi e molto irritati, il naso era irregolare e schiacciato come quello di un pugile, mentre la bocca aveva dei tratti delicati e femminili. Sembrava si fosse appena rasato perché il suo viso risultava liscio, anche i capelli erano molto corti, erano scuri con qualche ciocca grigia, forse aveva superato i quaranta.
Si tirò su e poggiò la schiena al muro per guardarsi meglio, girò la testa e notò che dietro l’orecchio sinistro aveva un tatuaggio “105”, fissò il frammento sul numero ma non gli diceva nulla; niente, nella sua mente non c’era che il ricordo dei pochi minuti prima in cui aveva aperto gli occhi.
Continuava a sentire freddo e si rese conto presto di indossare soltanto una canottiera sudicia e bucata, tenendo il frammento in mano portò le ginocchia al petto e si abbracciò tremando guardandosi intorno con la speranza di trovare qualcosa per coprirsi. Si trovava in una stanza ma una parte di essa era in ombra e non riusciva a capirne la grandezza, la poca luce che c’era era quella che filtrava dai buchi delle tapparelle di una piccola finestra sopra la sua testa, riuscì a scorgere di fronte a lui una vecchia sedia di formica con le zampe di metallo ribaltata con accanto dei vestiti ammucchiati e dei stivali da pesca, si alzò e corse a prenderli. C’erano dei pantaloni da lavoro blu scuro, un dolcevita bianco e un giaccone marrone da sci, si infilò tutto frettolosamente; c’erano anche dei calzettoni di lana pesante, sembravano fatti a mano, mise anche gli stivali da pesca e infilò in una tasca dei pantaloni il frammento di specchio. Gli venne in mente quindi di frugare in tutte le tasche ma trovò solo un pacchetto di sigarette.
“io non fumo”.
Sorrise era il primo ricordo istintivo che aveva avuto. Si trovava in piedi in quella stanza vuota e continuava a guardare verso il buio ma sentiva una strana inquietudine che gli suggeriva di non avvicinarsi, poi la sua attenzione si spostò verso la finestra chiusa.
“la finestra”.
La finestra!, come aveva fatto a non considerarla prima?!, aprì i vetri pieni di condensa e ragnatele ma le tapparelle erano bloccate e le fessure da cui passava la luce erano troppo strette per guardare fuori. Cercò di aprire, di rompere, di strattonare quelle tapparelle con tutte le sue forze ma erano come sigillate, dopo averle prese ripetutamente a pugni per il nervoso si arrestò respirando affannosamente, sentiva riaffiorare quella fastidiosa tachicardia, decise di calmarsi, e andò a tirar sù quella vecchia sedia di formica e metallo.
Stava seduto con i pugni sulle tempie, “uno zero cinque…centocinque”, lo ripeteva come un mantra ma continuava a non ricordare nulla di se e di quel posto umido, poi si abbandonò allo schienale e mise le mani in tasca, e tornò a fissare quella maledetta finestra. Stringeva il frammento nella tasca cercando una soluzione. “Lo specchio”.
Forse il frammento era abbastanza sottile da passare tra le fessure delle tapparelle e lasciare intravedere qualcosa, si alzò nuovamente quindi e corse alla finestra, lo specchio riuscì a passare ma la luce che veniva da fuori era troppo intensa e l’unica cosa che riusciva a vedere nel frammento era un riflesso bianco accecante, e accecato anche dalla rabbia prese la sedia e la scaraventò urlando contro la finestra. Si inginocchiò a terra fra i vetri che aveva rotto nell’impeto, ormai la tachicardia aveva ripreso il sopravvento e sentiva il fiato spezzato, aveva ricominciato a sudare, tutto ciò che aveva era quel frammento di specchio.
Tornò ad osservarsi, teneva il frammento fisso su quel tatuaggio, “105”, voleva ardentemente ricordarsi qualcosa, cosa significava quel numero?, nulla, nella sua mente non si accendeva nulla. Era in ginocchio da più di un’ora forse, stringeva il frammento e si fissava lo sguardo ripetutamente, poi sentì il battito tornare normale e riprese a respirare lentamente, guardò verso il buio della stanza, era ovviamente forse l’unica via d’uscita.
“non dar retta alla paura, alzati”.
Così fece, si alzò stringendo lo specchio nel palmo destro e cercò di puntarlo verso il buio proiettando un debole bagliore verso la zona inesplorata.
Lentamente avanzò. “uno. due…”
Contò dieci passi poi si fermò, era completamente al buio, per quanto aggrottasse lo sguardo non vedeva niente era nella completa oscurità, sentì il cuore tornargli in gola e quel senso di inquietudine sempre più fervido, continuò a stringere lo specchio nella mano fino a ferirsi, era l’unico appiglio che aveva, l’unica certezza di se, proiettò il braccio sinistro in avanti sperando di toccare il muro o almeno un ostacolo, ma sembrava immerso nel vuoto. Deglutì, e riprese a camminare.
“undici, dodici..ventisette, quaranta…”
Il vuoto era interminabile, dopo duecentottanta passi abbassò le braccia doloranti per la tensione, mise le mani in tasca, si fermò un momento e toccò il pacchetto di sigarette, ebbe una speranza.“Forse…”, prese il pacchetto, lo aprì, “Si” l’accendino era lì, come aveva sperato in quella frazione di secondo, incastrata fra cinque sigarette c’era la luce che cercava. Ripose il frammento nella tasca dei pantaloni ed tirò fuori l’accendino dal pacchetto, lo strinse tra le mani per un po senza accenderlo, la paura di vedere era forte. Esitò a lungo, ma quella era l’unica strada.
“Oh, andiamo!”.
Chiuse gli occhi e girò la rotella.
Aprì gli occhi, non riusciva a vedere nulla solo una forte luce a neon, faceva freddo ma grondava di sudore non riusciva a capire se quelle che scendevano sulle sue guance fossero lacrime o fatica, era in tachicardia e urlava di dolore.
“un’ ultima spinta!”.
Ci siamo, sentì il gemito e le misero in braccio la sua creatura “è un maschio”.
Era il primo maggio, il cuore aveva ripreso un ritmo normale, era esausta ma felice, lo fissò per qualche secondo, aveva gli occhi di un colore indefinito, il naso era quello inconfondibile del padre, la pelle era liscia anche se ancora appiccicosa ed aveva pochi capelli scuri, “il mio piccolo uomo”.
Lui continuava ad aprire e chiudere la mano destra come se cercasse qualcosa, lei sorrise, gli mise l’indice nel palmo e lui la strinse per la prima volta.
Anche l’immagine di copertina è di Isabella Mariucci