Di Geraldine Meyer
Il bruciacadaveri. Il volenteroso carnefice di Hitler
Praga, anni a cavallo tra il 1938 e il 1939. La storia sta per conoscere una delle sue pagine più nere, il Nuovo Ordine nazista si avvia a portare con sé morte, guerra e le allucinate note della così detta “questione ebraica”. In questo quadro storico conosciamo il signor Kopfrkingl, grigio, mellifluo impiegato del crematorio della città cecoslovacca. Un normale padre di famiglia. Come tanti.
Il bruciacadaveri, recentemente ripubblicato da Miraggi Edizioni, è uno di quei libri che non possono e non devono passare inosservati. Per questo la nuova vita che la casa editrice torinese ha deciso di dare al capolavoro dello scrittore ceco Ladislav Fuks è opera particolarmente meritoria. Che fa seguito alla ormai lontana edizione Einaudi (1972) voluta da Ripellino, e alla meravigliosa versione cinematografica di Jurai Herz, conosciuta in Italia come Il bruciatore di cadaveri.
Il bruciacadaveri, tra i maggiori romanzi cechi degli anni ’60, ci racconta l’ascesa sociale di quello che Alessandro Catalano, autore della preziosa postfazione che arricchisce il testo, definisce “becchino assoluto” richiamandosi al titolo di una raccolta poetica del poeta ceco Nezval. Un’ascesa sociale che corrisponde al passaggio del signor Kopfrkingl da melenso e ossessivo impiegato e padre di famiglia in mellifluo e orrido insieme sostenitore della politica nazionalsocialista.
È proprio la commistione di mellifluo e orrido a colpire maggiormente in questo libro. Kopfrkingl con discorsi che sono quasi sempre dei monologhi, resi narrativamente dalla ripetizione di parole e di intere frasi, passa senza soluzione di continuità, da una ipocrita e (senza nerbo) santificazione della sua vita, della sua famiglia e della sua casa, ad una altrettanto “molle” adesione ad un criminale progetto politico e sociale.
Ossessionato dalla morte, dalla cremazione, dalla perfezione dei meccanismi del crematorio che lui chiama il suo Tempio della morte, Kopfrkingel vive in un mondo bidimensionale in cui anche gli altri appaiono senza profondità, ridotti come sono (come lui del resto) a stereotipi, a maschere di un suo personale e ossessivo teatro mentale. “Polvere siamo e polvere ritorneremo” sono per lui ben più di un precetto religioso quanto semmai un’intera impostazione esistenziale in cui il ritorno alla cenere è la liberazione da ogni dolore e tormento.
Inutile dire come, sapendo quale sia stato il drammatico epilogo storico, leggendo questo libro non si possa fare a meno di provare un senso di straniamento e angoscia al contempo. Cosa saranno i crematori e le camere a gas nella follia nazista lo sappiamo bene ma la lettura del testo, pur lasciando presagire cosa accadrà e quale metafora contenga, inchioda in un crescendo di immersione nei luoghi più oscuri dell’animo umano, senza perdere in alcun modo di tensione. Ci si sente quasi a disagio leggendo questo Il bruciacadaveri ed è il disagio che impone un testo che non lascia scampo, una letteratura che affonda la lama in ciò su cui, ancora, ci si interroga, spesso restando in bilico sul ciglio dell’indicibile.
Un romanzo complessissimo, tra le cui pagine, di contro ad una trama che si può definire quasi inesistente, troviamo simboli, metafore e richiami a tutto ciò che era e fu il clima e il retaggio culturale del nazismo. Ma troviamo anche la narrazione del modo strisciante e subdolo con cui il nazismo è riuscito a ottundere le menti e la capacità critica di milioni di persone.
A fare paura, è il termine giusto, del signor Kopfrkingl, è proprio la natura quasi inerme della sua accettazione del Nuovo Ordine, la violenza tutta trattenuta delle sue parole, dei suoi pensieri, tanto più orridi quanto più vissuti e messi in atto con il solito sdolcinato sorriso. Sarà normale, per lui, trovare quasi una “giustificazione d’amore” per il gesto terribile che compirà contro la sua famiglia (che non diremo) e per quello che il nazismo compirà nei confronti degli ebrei. È proprio questo elemento mistificatorio e allucinato che stride e colpisce tra le scapole mentre si legge questo libro, la […] “contrapposizione – scrive sempre Catalano – tra untuosità melensa delle frasi e atrocità delle azioni”.
La storia di un volenteroso carnefice di Hitler, con un ossessivo interesse per il Dalai Lama e il misticismo orientale (richiamo neanche nascosto dell’interesse di molti gerarchi proprio per le dottrine mistiche e esoteriche), amante della musica, avente come uniche letture un libro sul Tibet, la tabella delle cremazioni e le notizie di cronaca nera lette in modo monotòno durante i pranzi in famiglia, che diventa il responsabile tecnico della soluzione finale, senza attriti di coscienza ma, anzi, scivolando mellifluo sull’untuosità della sua follia. Ecco perché appare ancora più preciso e lucido il titolo che Catalano ha scelto per la sua postfazione, chiamandola “Il bruciacadaveri come metafora della patologia collettiva del nazismo”
Roamnzo
Miraggi edizioni
2019
220