Di Carmine Maffei
Pablo
“Uuuhhh!!!! Ahhhhhh!!!!! Ihhhhhhhhh!!!!! OOOOHHHHHH!!!!! ”
“ Mmmmffhhh……oohhhh!!! Ahhhhh!!! AHHHHHH!!!! !”
“ Oohhh…ehm…mi perdoni la distrazione, gentile signora, ma ehm, ihhhhh!!! come chiamerà il suo bimbo?”
“Ahhh……ehm, prego?”
“Il suo bimbo, intendo…ahhh!!!…che nome avrà?”
“ Mmmfhh….Pablo.”
“Ah, Pablo? Nome spagnolo?”
“Una passione mia e di mio marito per tutto ciò che riguarda…aahhh… l’America latina”.
“Capisco…il mio si chiamerà come il padre di mio marito, oohhh, sa, le tradizioni”.
“ Certo, certo. Comprendo bene…il rispetto”.
“ Anche…però sa, mi fa piacere, davvero… ahhhh…dicevo, in fondo è anche un bel nome”.
“ Sicuro, sicuro!”
Fu così che due giovani donne si conobbero, in preda alle terribili fitte di dolore delle doglie, durante una notte asfissiante di caldo, nel bel mezzo di un’estate agli inizi degli scoppiettanti anni ‘80.
Per una strana combinazione il travaglio era iniziato più o meno negli stessi istanti per ambedue, le quali, altra stupefacente combinazione, provenivano dallo stesso paesino di provincia, ed ora, in una clinica del capoluogo, attendevano tra spasmi e grida il lieto quanto terribile evento, e condividevano gioie, paure, ansie e quanto più si possa prevedere preannunciando ciò che può essere chiamata nascita se intesa come lieto evento, ma anche tortura immane se descritto come cataclisma fisico dalle fattezze quasi sciabordanti.
Una delle due donne era mia madre, quella però che avrebbe dato il nome del suocero al suo bimbo, cioè io, non la mamma di Pablo.
Mia madre era una donna bruna, snella, dai lineamenti orientali, e i capelli lisci e neri che da una scriminatura al centro partivano dalla sommità del capo e le incorniciavano il volto e nella stessa stanza, la donna al suo fianco ora si adagiava appena sul letto, ora si alzava di scatto e si piegava finchè il pancione glielo avesse permesso, soffriva gli stessi dolori della compagna; anch’essa era bruna seppur più scura di carnagione, dai tratti meno marcati, più bassa di statura, con un cespuglio di capelli ricci in testa.
Io non ne volli sapere di nascere per parecchio tempo ancora, mentre la signora riccia accanto fu pronta dopo poche ore e si consegnò ai medici per il parto, e mi sembra assurdo già sottolinearlo fin da adesso, ma sapere di essere nato in ritardo rispetto a quello strano individuo di cui vi racconterò mi fa davvero un certo effetto, vi assicuro.
Fatto sta che intanto ambedue nascemmo lo stesso giorno, e sottolineo, si tratta di un giorno particolare, ossia il diciassette di un venerdì, e dalle nostre parti, almeno a quei tempi e garantisco anche ora, a certe cose ci credevano e ci credono ancora.
Solo che…beh…solo che noi, cioè io e Pablo, l’altro pargolo, credemmo di fuorviare eventuali stramberie scaramantiche e allearci nella particolare combinazione di fatti che ci vedeva uniti a sconfiggere la probabile sfiga con la quale gli altri ci avrebbero adocchiati.
Fu così che nacque, assieme a noi, questa necessità di sentirci uniti vita natural durante.
E comunque c’è da sottolineare che questo era ciò che pensavano le nostre mamme, così alleate fin dal nostro primo giorno sulla Terra, uniti da un destino che ci avrebbe accomunato come quasi gemelli eterozigoti, mentre noialtri, io e Pablo, continuammo a vivere, e probabilmente già da quel giorno, vite completamente separate, sia per conoscenze, che per gusti, abitudini, ubicazione, comitive, eccetera.
Dico davvero che mai e poi mai ci saremmo neanche una volta accordati per un’uscita tra amici, per incontrarci a messa, per giocare a pallone. Mai.
C’era soltanto questa piccola particolarità con la quale convivevo giorno per giorno fin dalla più tenera età, o comunque fin da quando risalgono i miei ricordi più nitidi, vale a dire tra i quattro e i cinque anni: mia madre continuava a ricordarmi del bambino che era nato il mio stesso giorno, quasi nella stessa stanza, nel trambusto di un grande ospedale, nel caos di una grande città, ma che proveniva dallo stesso paese.
Non che a me importasse tanto, però, e probabilmente manco a lui.
Solo che quel fatto era diventato un intercalare sistematico che avveniva, non so, quando festeggiavo il compleanno, o quando passavamo accanto alla clinica del capoluogo, oppure (inevitabile!) quando lo si incontrava per strada.
“Come chi, a mammina sua? Ma è Pablo!”
Pablo, Pablo, Pablo…sempre lui di torno.
Vorrei intanto precisare però: io ho avuto un’infanzia particolarmente piacevole e vi pregherei di non fraintendermi se vi assicuro che mai ricordi un evento tragico in famiglia che mi abbia colpito nel profondo fino a condizionarmi gli anni a venire, mai nulla, escludendo la brutta avventura che sto per raccontarvi, se vi metterete comodi comodi e riuscirete ad ascoltare tutti i miei perché di una vita nichilista allo sbando misantropo.
Mio padre e mia madre erano impegnati nel quotidiano in maniera quasi maniacale; il primo non lo vedevo mai, sempre alle prese con la sua attività, e la sera era stanco morto, riuscivo a fargli un discorso completo soltanto alla domenica; la seconda, invece, la vedevo tutti i giorni e a tutte le ore tranne quelle scolastiche, indaffarata com’era per le faccende domestiche, con una fissa per l’igiene, l’ordine e la manutenzione della casa, e con l’attenzione ai figli, con la manìa di crescerli nella corretta educazione quasi anni 50, solo che un fattore negativo della sua personalità era la fissa per riuscire sempre a creare un confronto tra me e gli altri.
Ecco, ci sono: gli altri.
“Non vedi gli altri come indossano i jeans? Perché a te non piacciono?” oppure “ Che male ci sarebbe a portare a scuola un mazzo di fiori per la maestra? Non vedi che gli altri lo fanno?” Oppure ancora “Cosa ci perdi a trovarti una comitiva per uscirci la domenica assieme dopo la messa? Non vedi tutti gli altri come fanno? ”.
Gli altri, gli altri, gli altri.
A me degli altri non importava nulla, signori miei tanto attenti, perché, vedete, io stavo bene così e, vi assicuro, non vedevo l’ora di ritornare ai miei giochi che custodivo nei cesti della mia stanzetta e trastullarmi lì per tutto il giorno e inventarci avventure, situazioni particolari, rocambolesche storie.
Stavo bene da solo, giuro, e vi dico che fino a che non me l’hanno fatto notare, per me la solitudine era un pretesto per sottolineare la mia personalità, per far intendere che in essa avrei immaginato l’impossibile, dove la realtà non impediva di vedere le cose come in davvero sarebbero state, con i limiti che ti impongono le esigenze degli altri.
Gli altri, gli altri, gli altri…uffa!
Ero arrivato a creare un amico immaginario, che non era che me stesso, una specie di ghostwriter delle mie storie, uno stuntman per le condizioni più pericolose, una controfigura per le situazioni più spiacevoli.
Il bello era quando lo incontravamo, Pablo.
Ora al mercato il sabato, ora alla festa del paese, ora al supermarket…non vi dico!
Smancerie, complimenti, carezze, confortanti opinioni.
Ripensandoci bene, nonostante in me sia rimasto quel modo di restare da solo e starci bene, a quei tempi non potevo non affacciarmi una tantum dalle tende del mio rifugio morale, creativo e figurativo, e notare quanto Pablo fosse davvero strano.
Come vi dicevo poc’anzi manco ci cercavamo con gli occhi, quando le nostre mamme, reduci da quella avventura, s’incontravano e restavano a parlare per minuti infiniti.
Però io ogni tanto, giuro, di sottecchi lo guardavo, Pablo, e dico che era strano assai.
Della madre aveva preso il cespuglio di capelli ricci e neri, solo che pareva gli spuntassero dalla sommità del capo, come un’eruzione vulcanica, e poi lunghi lunghi gli cadessero sulle tempie; aveva due occhi grandi e castani, ma che finivano in piccole fessure verso un naso piccolissimo; una bocca larga e un paio di incisivi lunghi, marcatissimi e bianchissimi.
Crescendo e facendomi una cultura da TV per bimbi, finì sempre per ricordarmi Alvin Superstar, lo scoiattolo.
Insomma un roditore piccolo e dispettoso, proprio quello mi pareva.
E mia madre lì ad elogiarlo “ Ma come è bello qui, ma come è grande, ma come è simpatico, sì!” e poi rivolto a me “ ma non lo vedi quanto è carino il tuo amico? Perché non vi salutate? Lo sapete che siete nati lo stesso giorno? Sapete che potreste essere gemelli? Sapete che più degli altri vi dovreste voler bene?”.
Mio Dio, io e quel roditore manco ci sopportavamo, e si notava a distanza che ci tenevamo tutti e due a restare nella propria zona di confine, e secondo me era una questione di istinto infantile, non come quando si cresce e tra adulti, per quanto non ci si sopporti, nel novantotto per cento dei casi, purtroppo ce ne usciamo con quelle ridicole scene di circostanza…puah!
A me sapete quanto m’importasse del tipo che era nato insieme a me? Niente.
Solo che la situazione cambiò quando mi decisi ad andare alla scuola materna.
Si precisi il fatto che iniziai un anno dopo gli altri della mia età, e sempre per quella questione del mio essere asociale e distaccato dal mondo esterno a cui proprio non mi sentivo di appartenere.
Eccomi, dicevo quindi, all’ingresso della scuola, e mentre stringevo forte la mano della mamma, varcando la soglia di un edificio tutto nuovo per me che iniziavo ad affacciarmi alla vita sociale e ai suoi confronti e mi ritrovavo nell’atrio affollatissimo di genitori e bimbi piagnucolanti, sapete chi mi ritrovai davanti?
Esatto, Pablo.
Pablo con la madre.
“ Ma guarda, guarda, guarda un po’ chi si rivede! C’è il tuo amichetto Pablo!!”
Il mio amichetto? Oddio, ci risiamo…
Intanto il piccolo roditore si nascondeva dietro alla gonna della madre e guardava sotto sotto ora me, ora la classe dentro cui ci saremmo avviati di lì a pochi minuti, e il bello sapete cos’era? Quel tipo manco aveva timore di entrarci, in quell’aula, cosa a cui io mi sentivo completamente estraneo; io quel mondo fatto di schiamazzi e di piagnucolii proprio non lo sopportavo! A casa col ghostwriter, con la controfigura, con lo stuntman volevo stare!
Difatti passarono dapprima giorni e poi mesi ed il mio pianto mattutino non ne voleva sapere di cambiare intensità: la scuola per me era innanzitutto il terrore di confrontarmi con gli altri.
Li vedevo così dannatamente vivaci e felici di stare insieme, gli altri.
“ Perché non stai insieme agli altri?” insisteva a chiedermi mia madre.
Gli altri, gli altri, gli altri. Ah, miseriaccia!
Io nemmeno me ne facevo un problema e difatti accanto alla maestra tutta la mattina restavo.
E guardavo gli altri una spanna più su di tutti, ah ah che ridere, accanto alla forma più alta di potere che fosse esistita in quella classe.
Fu così però che un giorno le cose per me andarono diversamente.
E non me ne vogliate male, amici, se spesso le debolezze si prendono gioco delle fragili coerenze di un bambino, ma l’input me lo diede proprio colui che mai vi sareste aspettato.
Successe che una di quelle mattine, per qualche minuto in più, la classe restò scoperta, a causa della momentanea assenza della maestra, e tra quei selvaggi che chiamavano bambini successe qualcosa di inaspettato: un’ammucchiata.
Dalla pedana della cattedra, aspettando il rientro dell’insegnante e assaporando già il mio trionfo di quando ella avrebbe urlato come una forsennata per il comportamento deplorevole degli altri e avrebbe elogiato me come unico modello di educazione da seguire, mi sentii all’improvviso plagiato.
Mi sentii come quei cobra destreggiati dai flauti, come se mi stesse chiamando un pifferaio magico, come se una forza misteriosa stesse per attrarmi verso quell’ammasso di corpi che si muovevano in una montagna indistinta di grembiuli a quadretti azzurri.
La novità avvenne quando una delle teste che restavano inabissate, all’improvviso scattò all’insù, in un trionfo di ricci neri neri, con al di sotto di essi degli occhietti vispi da gufo.
Pablo mi stava osservando e lo faceva con un’intensità che mai prima d’ora mi era capitato di notare: quando mai lo faceva per strada, o al supermercato o alla festa del paese?
Il suo ora sembrava uno sguardo d’intesa, i suoi incisivi aguzzi brillavano in un sorriso amichevole e capii che di quella sensazione dovevo, potevo fidarmi.
Ma non sapete che potreste essere gemelli? Che dovreste volervi bene?
La voce della coscienza poi, che aveva il timbro di mia madre, finì per convincermi.
Insomma, guidato da non so che di parecchio forte, soprattutto quando il mio coetaneo perfetto addirittura alzò un braccio e guardandomi sempre con una sorta di rarissimo entusiasmo, mi fece l’ineguagliabile cenno con la mano di chi ti invita ad aggregarti, saltai per istinto giù dalla pedana e mi aggrappai a Pablo, che a sua volta mi strinse in un abbraccio fortissimo e mi catapultò nell’ammucchiata festosa.
Lì dentro era tutto stramaledettamente nuovo, e bello, cacchio!
Venivo sballottato ora a destra, ora a sinistra, ora mi si pestavano i piedi e io li pestavo ai vicini; ora mi urlavano nelle orecchie ed io risvegliavo la mia voce assopita e imitavo, e cominciai a capacitarmi che in fondo accomunarmi con gli altri non era poi così male; la scuola materna era una figata! Potevo finalmente attutire la mia asocialità! Potevo dare sfogo a entusiasmi regrediti.
Tutto davvero molto chiaro, così nitido, ed io ero così lucido che all’improvviso sentii un bruciore intenso all’orecchio destro.
Il lobo lo sentivo infuocato, e con orrore compresi che mi faceva un male terribile, e quel dolore s’intensificava sempre più, sempre più e sembrava non finire mai.
Urlai con quanto fiato potessi, ma le mie grida vennero soffocate da quelle di gioia che si sovrapponevano e per effetto di maggioranza offuscavano il vero ululato che iniziai a diffondere.
Sentivo una morsa che mi strizzava il lobo dell’orecchio destro, e un calore iniziò a diffondersi al di sotto di esso, giù per il collo.
Fortuna volle che il miracolo avvenne quando credetti di perdere i sensi.
La maestra era balzata come un grillo in aula e urlando ( non so come, ma più di noi ) ci spintonava e ci trascinava verso i banchi e ruppe il cerchio di corpicini che si erano fusi in un vortice pauroso.
La morsa all’orecchio si allentò e scomparve, ma non il bruciore e quel calore così insistente.
Quel calore lo sentivo scorrere a rivoli per il collo e fin sopra la spalla.
Aprii gli occhi e accanto a me c’era lui, Pablo, e la sua espressione di sfida riuscita non la dimenticherò mai: i suoi denti sporgenti erano macchiati di sangue, e le sue labbra anche.
Sorrideva, quel roditore impazzito, ed a un certo punto con la mano pulì la macchia rossa che gli si era formata sul muso, lasciandosi una traccia rossastra su tutto il viso, come un clown dal rossetto sbaffato.
Aveva il volto insanguinato, il mio sangue, e ghignava: era pazzo!
La povera donna che avrebbe dovuto evitare l’incidente urlò di stupore.
Io mi tenevo l’orecchio con ambedue le mani e sentivo che il sangue non decideva di arrestarsi: un calore appiccicoso mi inondava le dita, capii che stavo per svenire ma tenni duro, o almeno ci provai.
Ripresi i sensi quando sentii l’acqua fredda darmi sollievo e alleviarmi sia il dolore che lo stupore.
Pablo era al lavabo accanto a me, sorretto da un’altra donna che lo aiutava a toglier via il mio sangue dal suo volto.
Attorno a me regnava lo stupore, e ricordo le urla delle insegnanti, l’affrettarsi dei bidelli, la medicazione e infine la corsa in ospedale.
Non vi dico mia madre!
All’epoca neanche guidava, e fu avvertita dalla scuola tramite telefono, quindi lasciò scope e fornelli e si avviò di corsa verso l’ospedale ( per fortuna era abbastanza vicino ); infine promise randellate agli infermieri, appena arrivata al pronto soccorso, nel caso non l’avessero fatta passare.
C’era pur suo figlio lì dentro, no?
Quando corse al mio capezzale mi ero quasi del tutto ripreso, a parte quella sensazione d’intorpidimento a tutto il lato destro del volto, sembrava stessi benone, solo che lei ora sembrava una dannata, e quando mi chiese chi si fosse permesso di mordermi ed io glielo riferii, cambiò praticamente colore.
Dal lavoro che svolgo ora, a distanza di tanti anni, ho in mente la legenda dei colori Pantone dinanzi a me, ed esattamente quelli che passano dal 186, sarebbe un rosso acceso, fino al smorzare al 413, e cioè un grigio da pallore mortale.
“ CHE COSA?! PABLO?!!!”
“ Sì, mamma. Proprio lui…”
Con un gesto inconsueto, come di chi stesse per slacciarsi la cintura dei pantaloni, mia madre ficcò la mano sotto la cintola, proprio in prossimità di dove la camicia terminava in una gonna a scacchi, e chissà da dove, chissà come, estrasse una figurina della Madonna del Carmine, tutta sgualcita dopo la corsa trafelata e me la sbatté sotto al muso.
“ BACIALA!”
“ Cos…”
“Baciala, ho detto!”
Obbedii.
“E giurami ora, giurami adesso che non stai raccontando bugie, giuramelo per il bene della Madonna che ti salvò dalle convulsioni che avesti appena nato, ricordi?”
“Mamma, come potrei ricordarlo?”
“Non importa. Ciò che conta è che tu mi dica la verità e che non nasconda nessun segreto. Quell’angioletto di Pablo…come potrebbe mai fare una cosa simile? Dimmi: COME!”
Un infermiere si avvicinò al mio letto, poi rivolto a mia madre:
“ Signora, per il rispetto degli altri malati dovreste abbassare il tono, o sarò costretto a mandarla fuori.”
“ Spedisco io fuori a lei a pedate, se non se ne va al più presto. Questo è mio figlio, ha quattro anni ed ha subito una violenza, ed io ho il sacrosanto diritto di SAPERE!!!”
L’uomo dal camice bianco prima indietreggiò, e poi si allontanò diretto chissà dove, ma con passo deciso.
“ Hai sentito cosa ho detto? Chi è stato a farti questo? GIURA!” chiese poi, rivolta di nuovo a me.
Un borbottio di protesta iniziò da qualche parte lì, nell’ambulatorio, probabilmente qualcuno steso sulla barella con una flebo piantata nella vena e la testa che gli scoppiava per le urla di quella donna dai tratti orientali visibilmente incazzata.
“Mamma, ma io ho già giurato! Potrei mai mentire baciando la Madonna? Come potrei incolpare qualcun altro se a farmi questo è stato Pablo? E’ stato Pablo!”
“ Non è vero. Pablo ti vuole bene, e tu hai sempre finto, perché lo odi, vero? Perché ti sta antipatico, non è vero? Ed ora stai lì ad inventare una baggianata che lo accusi così che possa togliertelo dai piedi, giusto?”
Esasperato dall’avvenimento ancora troppo nitido, e da lei che non mi credeva, iniziai a piangere.
“ E va bene. VA BENE! CI CREDO!”
Ancora lamenti di protesta, da più letti ora.
“ Mamma, ti giuro sulla Madonna del Carmine.” e detto questo ribaciai quella figura sgualcita e sudaticcia “ mi sta antipatico più del diavolo ma, DIAVOLO, E’STATO LUI!”
“Il diavolo?”
“ PABLO!”
“ Oh Signore benedetto!” e mentre esclamò ciò si fece il segno della croce.
Ritornò l’infermiere sparito pochi minuti prima, questa volta però scortato da due carabinieri.
“ Signora” esordì uno dei militari “Su richiesta del personale di questo ospedale, ed in nome della legge, le chiedo di abbandonare questa struttura nel più breve tempo possibile. Le sue urla disturbano chi è impegnato a salvaguardare altre vite, non meno importanti di quella di suo figlio”
“ Mai!”
“ Signora, la prego, obbedisca o sarò costretto ad arrestarla per schiamazzi e resistenza ad un pubblico ufficiale” insistette sempre con calma il carabiniere.
“Non mi tocchi, sa.” disse furiosa mia madre “sono pur sempre una donna.”
“ Non le sarà toccato un capello, signora. Potrà aspettare suo figlio fuori, appena sarà dimesso, perché servirà la sua firma.”
“ Non finisce qui” disse mia madre, arrendendosi con mio grosso stupore “vado via da sola e che nessuno mi accompagni!” e ribadito ciò puntò un dito sul naso dell’infermiere che aveva assunto un’espressione da vincitore, e che ora alzava teatralmente le mani come in segno di resa, sorridendo di sottecchi.
Poi rivolta ai carabinieri: “Ho da sporgere denuncia nei confronti di un minore”
“Signora, comprendiamo la sua rabbia ma le informiamo che procederemo per gradi. Si assicuri innanzitutto che suo figlio stia bene, firmi il rilascio e poi ci raggiunga in caserma per verbalizzare”
“Sarà fatto. Ti aspetto fuori, tesoro. Pagheranno!”
Che io sappia la denuncia fu fatta,e certi aspetti legali non mi interessarono.
Pablo sparì dalla scuola, perché allontanato su indicazione del provveditorato agli studi, e dalla mia vita, perché la famiglia lo chiuse in punizione per diversi mesi. Gli era consentito solo andare a messa tutte le sere, per riconoscere le proprie colpe e chiedere il perdono al Signore.
Ecco ciò che mi interessava davvero.
Pablo, lungi da me!
Società di bifolchi, via via lontano da me!
Che vi devo dire, snobismo, misantropia o agorafobia, insomma quello di cui ero pienamente convinto, la mia solitudine al posto di una vita condivisa con gli altri, dopo quella brutta avventura, prese piede ed ottenne giustizia.
Da quel giorno, a scuola, ripresi posto sulla cattedra accanto alla maestra, e ho avuto sempre diffidenza agli inviti.
Oggi sono un uomo solo, con una leggera stroncatura al lobo destro, con la paura di lanciarmi in una mischia, mentre vi spiego un’avventura spiacevole di tanti anni fa.
Ah, sapete che cosa c’è? A quella credenza del diciassette venerdì ci credo.
Pablo, invece, oggi è un uomo felicissimo, dai denti aguzzi: assurdo che tutti abbiano dimenticato quell’episodio e li si vedono tutti dargli delle pacche amichevoli sulle spalle, compiaciuti.
Lui alla scaramanzia si vede un miglio che non ci crede e, in fondo lo capisco.
Gli altri, che ci credano o no, che m’importa?
A me nemmeno mi calpestano, se fossi un tappeto di foglie, per paura di infettare le suole, e scambio poche parole coi conoscenti, quei quattro gatti che mi ritrovo, poi quatto quatto scivolo via senza farmi vedere, e mi auguro di incrociarli al massimo entro il prossimo Natale.
Anzi, manco questo mi auguro: sbaciucchiarsi sulle guance con una distanza riavvicinata al mio orecchio trasandato, il simbolo della mia discordia con il genere umano? PUAH!
Per un attimo ho pensato di fidarmi, degli altri, ma bene non mi è andata, sapete.
Ho sottolineato, qualche frase più su, che ho avuto un’infanzia tranquilla, senza specificare fin da subito il mio episodio peggiore, e sapete cosa vi dico? Lo ribadisco.
La mia infanzia ha avuto come esempio quel fattaccio, ed è per questo che non la scambierei con quella di nessuno; io gli altri nemmeno li capisco, e spesso nemmeno li noto.
Ci lavoro, certo, ci convivo, e spesso ci mangio assieme a mensa oppure ci faccio l’amore, perché all’istinto sessuale non so resistere, e nella fattispecie, mentre compio l’amplesso preferisco non baciare e far assumere una posizione animale alle mie compagne, ma nella mischia non mi ci metto. Ci tengo ad ammirare dall’alto del mio belvedere io, quanto è ridicolo quel loro modo di scannarsi, di staccarsi i lobi delle orecchie a morsi a loro volta.
Spesso per fingere loquacità, ad esempio ai matrimoni delle mie sorelle, mi sono ubriacato fino a ridere a crepapelle per ogni battuta stupida che mi si rivolgeva, e infine sono stati gli altri ad allontanarsi da me, nauseati da quel tanfo d’alcol, e infastiditi dai miei modi ondeggianti.
In gioventù ho fumato cannabis per lo stesso motivo, ma ora ho una paura tremenda per i tumori ed ho smesso di fumare, quindi ho finito di assumere droghe leggere e adesso, nella mia lucidità, almeno quando non mi ubriaco, resto distante dall’ammucchiata di competizioni dei comuni mortali.
Ogni tanto vi ho notato quel mio amico immaginario, il ghostwriter, lo stuntman che mi somiglia come una goccia d’acqua a tal punto da essere me, mentre si tuffa in quell’ammucchiata, ma io resto a distanza, signori, e mi tengo a riparo sullo scranno, e ogni tanto, per istinto, una mano sale ad accarezzare l’orecchio a cui manca un pezzo, come a ricordarmi che quella parte del mio corpo mai più si riformerà, e che ho perso quando mi sono immischiato in ciò che oggi amo (adoro) tenere lontano.
Il resto del mio corpo non lo darò in pasto a quelli con i denti aguzzi, e vi mando la mia ombra. Loro pensano che sia davvero io quello a cui stringono la mano in segno della più completa ipocrisia, ma è il mio inviato speciale, il mio anagramma, il mio doppelgȁnger.
Io resto al di qua, signori.
Resto a guardare, e chissà, forse un giorno, quando mi sentirò abbastanza pronto per farlo, scenderò davvero, salterò dalla pedana e liquiderò il mio sosia; urlerò la mia autorevolezza e scaglierò ai loro posti quei derelitti umani pieni di odio.
Non prima però di essermi assicurato dell’assenza di Pablo.
L’immagine di copertina è L’abbraccio madre con bambino di Gustav Klimt, tratta da ArtSpecialDay.com