Nato a Como, di origine salentina, Alessandro Vergari vive da diversi anni a Bari dopo essersi laureato in Filosofia all'Università Statale di Milano, con una tesi sul rapporto tra guerra e giustizia. Una geografia complicata? Forse. Alessandro scrive recensioni e articoli su diversi blog. Cinema, letteratura, musica e cucina (in qualità di consumatore finale) le sue principali passioni. Ama il sole e il mare. Sulla politica attualmente non si pronuncia. "Ho dato abbastanza", queste le sue dichiarazioni in materia.

Di Alessandro Vergari

Dalle Torri alla crisi. I provinciali, il romanzo del decennio.

“Vecchi paesi, cittadine coloniali, luoghi che erano troppo a nord per poterli definire sobborghi. Altalene arrugginite e piscinette fuori terra in giardini perpendicolari alla ferrovia. Mark si sentiva uno di quei nababbi ottocenteschi senza scrupoli a bordo della sua carrozza privata, ma con una quantità di differenze, principalmente l’assenza di cibarie e il vago odore di muffa e gli squarci profondi nei sedili in finta pelle e le pallide, tenaci chiazze sullo smorto linoleum industriale del pavimento. Così su due piedi, Mark non avrebbe saputo dire dove trovare oggigiorno quel tipo di linoleum. Doveva avere la stessa età del vagone”.

Mark è in treno e sta tornando a casa da New York City. È un giorno di settembre del 2001. Mark vive a Howland, New England. A Howland, provincia profonda, lo attendono la moglie Karen e la figlia Haley. Mark, a capo di una piccola impresa specializzata in ristrutturazioni edilizie, ha perso una considerevole quantità di denaro a causa di una speculazione azzardata. Un certo Garrett Spalding, sedicente operatore finanziario, lo ha fregato. È questo il motivo della sua visita presso lo studio dell’avvocato Greg Towles, a NYC. Quel giorno, però, a Manhattan c’è un’aria strana, tutto è sospeso, allucinato, stravolto. Da poche ore sono crollate le Torri Gemelle. Il panico dilaga nelle strade, pare il preludio della fine del mondo, eppure la metropolitana ha già ricominciato a funzionare… Towles non si presenta alla riunione, l’incontro è rinviato a data da destinarsi. Mark condivide la stessa stanza d’albergo con un tecnico di laboratorio, l’unico truffato convenuto, con lui, nell’ufficio del legale. La mattina seguente l’uomo è scomparso e sono scomparse anche la Mastercard e le foto di famiglia che Mark aveva nel portafoglio.

Il capitolo 0 de I provinciali, zero come Ground Zero, meriterebbe già, da solo, un posto nell’empireo della letteratura americana contemporanea. Jonathan Dee, già finalista al Premio Pulitzer del 2011 con I privilegiati, dedica all’evento, anzi, al riflesso e alle ripercussioni immediate dell’evento, le prime pagine del romanzo, per poi svoltare, geograficamente, nel cuore ombroso del New England, sede e ambientazione delle restanti pagine del romanzo. Il disorientamento civile si propaga come un’onda. La facciata della realtà non tiene più, la verità si decompone in sterile apparenza, la fiducia cede il passo all’inganno. Il lettore è coinvolto in questo processo di dissociazione cognitiva che confina con la distopia. Scrisse Martin Heidegger: “L’evento è ciò che accade e che, accadendo, giunge a sorprendermi, a sorprendere e a sospendere la comprensione… L’evento (ereignis) è in primo luogo il fatto che io non comprenda” (in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976).

Jonathan Dee, in fulminanti passaggi attraversati da ironia e sostenuti da un uso magistrale delle analogie (“Tornò a casa, si distese sul letto e sentì l’adrenalina ritirarsi come una marea”), fotografa il collasso dell’ottimismo cieco nelle mirabili sorti e progressive, la fine del tecnoilluminismo coltivato nel “decennio d’oro” clintoniano, il degrado etico insito nell’alleanza tra capitalismo selvaggio e neosciovinismo, antipasto del sovranismo odierno. Lo schianto degli aerei corrisponde a un big bang politico, dal quale ha origine l’America nuova, quella che scivola nella paura e nella paranoia, nell’ansia e nella diffidenza. Inizia, così, l’epopea negativa dell’antieroe Mark e dei suoi compaesani. I provinciali apre con l’attacco epocale alle Twin Towers e termina con gli strascichi meschini della crisi dei mutui subprime. Il romanzo decodifica lo spirito del primo decennio del XXI secolo e lo trasforma in vera letteratura, in storia del nostro tempo.

Jonathan Dee affida a un comparto di voci affiatate la scrittura di un romanzo corale. I personaggi sono figure paradigmatiche di un’America in cambiamento. C’è Gerry, il fratello di Mark, che perde il posto da agente immobiliare a seguito di una relazione con una collega, consumata nel riservato silenzio di case vuote e invendibili, un fatto non apprezzato dal datore di lavoro. Gerry, contro la “dittatura” del politically correct, apre un blog arrabbiato dalle sfumature cospirazioniste. C’è Candace, l’irrequieta sorella di Mark e di Gerry, che, dismessi i panni stretti della docente, trova nell’impiego di bibliotecaria la dimensione professionale e umana consona ai suoi ideali, tanto da trasformare le sale di lettura semideserte in rifugio diurno e notturno per anime allo sbando. C’è Philip Hadi, un miliardario di Wall Street timoroso di un possibile, potenziale secondo attacco terroristico che, affascinato dalla remota tranquillità del New England, si trasferisce a Howland con l’enigmatica moglie Rachel e gli invisibili figli. Hadi si introduce nelle dinamiche locali fino a essere eletto primo consigliere della cittadina: la sua avventura politica segna l’avvio di un progetto sicuritario. Ci sono le già citate Karen e Haley, moglie e figlia di Mark: la prima approfitta del conservatorismo compassionevole di Hadi e diventa, dietro sua indicazione, segretaria dell’ufficio sviluppo a Caldwell House, una magione decisiva per gli equilibri finanziari della cittadina, la seconda è una ragazzina introversa, unica autentica coscienza critica della comunità.

«Certo, se il suo desiderio non è quello di restaurare case ma di fare altro, dovrebbe perseguirlo. Viviamo troppo poco per sprecare il nostro tempo. Le sto solo dicendo di non sminuire ciò che fa soltanto perché altri guadagnano di più. Siamo tutti parte di un ecosistema che dipende da lei allo stesso modo in cui dipende da me», dice Hadi in risposta a Mark, preoccupato dalla contrazione del suo fatturato dopo il disastro delle Torri. Ecosistema, un insieme bilanciato, equilibrato e dinamico dove ognuno scambia i prodotti della propria attività con i bisogni altrui. Il piccolo imprenditore, che ha appena fortificato la villa di Hadi con dei sistemi di sicurezza all’avanguardia, pende dalle labbra oracolari del “lupo” di New York. Sarebbe sufficiente, crede Mark, un consiglio su quali strategie mettere in atto per rendere più agile il suo sguardo sul mondo degli affari locali, per avanzare nella gerarchia del successo. Ma cosa accade se il vertice della piramide economico-sociale è oramai irraggiungibile? La mobilità è ancora possibile? «Una cosa gliela voglio dire, riguardo all’idea di pensare in grande. Le case sono una risorsa, e lei ne capisce il valore e sa come incrementarlo… Ma mi rendo conto che finché si limiterà a lavorarci all’interno potrà valorizzarne solo una per volta, non so se mi spiego. Laddove invece un investitore sa porsi al di fuori di qualcosa e vederlo nel suo contesto. Nella sua interezza». Hadi, dispensatore di luoghi comuni, si limita a enunciare vaghe regole di comportamento, recepite alla stregua di perle di saggezza universalmente applicabili dall’avido, ingenuo interlocutore. Nel corso del romanzo, Mark cambia pelle, ma nella sostanza resta, appunto, un uomo della sconfinata provincia americana. Il sillogismo alla base della nuova attività, ovvero l’acquisto e il ripristino di immobili in stato di abbandono al solo scopo di rivenderli, una volta sistemati, al miglior acquirente, ha come premessa necessaria la scommessa dell’indebitamento. È la bolla degli anni Dieci.

Ne I provinciali si svolge il destino di una comunità. Accomodatosi nella sua abitazione non bella né sfarzosa ma pratica, simile per funzione a un castello medievale, Hadi è il perfetto prototipo dell’uomo fuso, simbioticamente, con il dettame ideologico del controllo. Il miliardario è un convinto sostenitore dell’uso di strumenti tecnologici di sorveglianza, telecamere e sensori, per prevenire la minaccia del nemico alle porte. Inoltre, sfrutta un momento di vacanza del potere e si pone al vertice dell’amministrazione. È importante concentrarsi su Hadi, sulla sua amoralità caratteristica di un approccio tecnico ed economicistico ai problemi. Quando Howland versa in crisi per mancanza di liquidità, Hadi, dall’alto delle sue capacità finanziarie, non esita a tirare fuori di tasca propria i soldi necessari a coprire tutte le spese extra. Non è il pubblico a contribuire, a sanare, a salvare le casse della collettività, ma il privato. Non solo. Hadi, per preservare esercizi commerciali in perdita, presumibilmente cari alla comunità per il carico di memorie accumulate, elargisce generose sovvenzioni. Inoltre, risolve di persona, senza intermediari, i problemi occupazionali dei singoli che si rivolgono a lui. È un novello signore feudale?

I provinciali intercettano lo snodo tematico più delicato della questione politica attuale. Non è forse qui esplicato, nella sua nuda verità, il motore dei ragionamenti della Silicon Valley e di tutto il capitalismo digitale applicato ai bisogni sociali? Non stiamo svendendo, con leggerezza disarmante, i nostri dati sensibili ad un deus ex machina sconosciuto, pervasivo e capillare, in cambio di un sogno orwelliano di sicurezza totale? Non ci troviamo, ora, al crocevia ideologico tra, da una parte, il fenomeno dell’abdicazione dello Stato dalle proprie funzioni storiche, a vantaggio di un sistema di appalti ceduto alle imprese hightech, e, dall’altra, la ripresa di motivi socialisteggianti, evidenti ad esempio nell’ala sinistra del Partito Democratico, proiettati verso la difesa dei beni comuni contro l’individualismo estremo e la progressiva sottrazione di potere delle (dalle) masse?

Nel romanzo di Jonathan Dee si può scorgere, in lontananza, il profilo già riconoscibile di Donald Trump. Howland è la dura periferia delle case sfitte, opposta ad un centro finanziario liquido, fantasmatico. E poi soprattutto, a Howland, quelli che si credono i più avveduti, i risvegliati dal sonno profondo delle narrazioni elitarie e progressiste, vedono in internet l’ancora di salvezza, la boa cui aggrapparsi mentre attorno infuria la tempesta. Internet è anche uno strumento di contropropaganda. “Senza dubbio, l’America aveva dei veri nemici, ormai non lo si poteva più negare… Seguendo i vari link, la sensazione che avevi mentre sentivi passare la sbornia al chiarore della lampada, circondato dal buio silenzioso della notte, era di qualcosa che si indeboliva, che cedeva. La paranoia, lo smarrimento, la sensazione di essere travolti si autoavveravano, e una volta che ciò accadeva la tua debolezza veniva smascherata, e tu esponevi davvero il fianco agli attacchi. E Internet era la rappresentazione migliore dell’accuratezza di tutto questo. Era un mondo all’interno di un mondo, una forza che si opponeva alla sensazione che gli eventi fossero casuali e incontrollati”.

Gerry è l’idealtipo del cittadino di provincia frustrato, debole, incarognito, pronto, ne siamo certi, a indossare il cappellino con il motto ‘America First’ negli anni a venire. “Il web era pieno di mattoidi con cui non eri costretto ad avere a che fare, ma che nella loro globalità significavano qualcosa: la loro follia era il sintomo di qualcosa che non poteva essere imbrigliato. E che accantonavi a tuo rischio e pericolo. La parte migliore era la sensazione di essere anonimo ma di mantenere lo stesso una tua identità”. Ad Howland il nemico dei valori americani è un’ombra che si agita nel profondo della psiche, un archetipo che si materializza nella concretezza effimera del virtuale, ogniqualvolta si torna a parlare dell’Evento in un servizio giornalistico trasmesso in televisione. Le fake news emergono da questa palude di orrori preventivati, pre-sentiti, perfino evocati, estremo paradosso, affinché si palesino nella forma sincera di un assedio, di una piaga veterotestamentaria. È la perversione di chi pregusta la reazione al male, come momento di liberazione e di palingenesi dopo aver troppo sofferto in silenzio. “Oggi noi non andiamo dal passato al futuro transitando per il presente, bensì ci muoviamo di incidente in incidente, tanto che il futuro stesso ci appare sotto questa forma che paventiamo, ma che insieme, più o meno consapevolmente, auspichiamo” (Marco Belpoliti, Crolli, Einaudi, 2005).

David Foster Wallace, in un racconto scritto all’indomani dell’Undici Settembre e ambientato a Bloomington, Illinois, scrive: “gli abitanti di Bloomington non sono scostanti ma tendono a essere tipi riservati. Gli estranei vi sorridono cordialmente, ma di regola non ci si scambia quelle quattro chiacchiere fra sconosciuti tipiche delle sale d’attesa o delle file in cassa. Ora però c’è un argomento di conversazione che supera ogni riserbo, come se per qualche motivo ci fossimo ritrovati per caso lì, ad assistere allo stesso incidente stradale”. La commozione è motivo di unità e compattezza, laddove impera, per tradizione, la frammentazione egoistica delle villette monofamiliari. Wallace punta l’attenzione sulle bandiere e sulle aste che servono a issare le bandiere a stelle e strisce fuori da ogni casetta con giardino. Aste lucide, solide, curate più di un pezzo di arredamento di lusso.

Anche ne I provinciali  affiorano i sintomi della malattia patriottica. Dee, nel percorso temporale in cui colloca il suo splendido romanzo, smaschera l’artificiosità e il semplicismo delle tesi più in voga, servendosi della “casa”, metafora delle costruzioni fasulle e delle sovrastrutture della politica. Caldwell House, cupo villone di inizio Novecento assurto a simbolo della storia cittadina, cova nelle sue viscere il ricordo delle gesta spregiudicate del suo fondatore, un passato rimosso con l’abilità selettiva tipica del peggior dogmatismo. Dei sogni di gloria di Mark e delle imprese amatorie di Gerry ne abbiamo già parlato. Case ridotte a merce o ad alcova, non-luoghi privi di fascino e memoria, sfondi di attività senza sbocco e senza futuro. Haley esercita la sua ribellione aggregandosi a un gruppo di ragazzi che irrompe di notte nelle seconde case dei ricchi, numerose a Howland e sigillate per nove messi all’anno. Nel gioco, all’apparenza stupido, possiamo leggere un tentativo di effrazione dell’ordine borghese, un gesto performativo di riappropriazione di uno spazio sprecato. Ne I provinciali la patria, il suolo, la proprietà sono elementi fisici, e segni culturali, sottoposti ad un processo di smaterializzazione che il capitalismo avanzato sollecita e reclama.

Mark, predatore e preda, incarna questa indifferenza ai destini altrui, cardine ‘etico’ del Sistema. “Mark non sapeva niente dei proprietari precedenti, a parte che a un certo punto avevano smesso di pagare il mutuo. Forse anche la loro triste storia si trovava su Internet, come apparentemente qualsiasi altra cosa, ma Mark non aveva alcun desiderio di leggerla. Una casa era un bene, non una storia”. Ma non è esattamente questo il ‘deserto del reale’, tematizzato, seppur da prospettive diverse, da Jean Baudrillard e da Slavoj Zizek, ovvero la pratica di annientamento digitale di ogni valore, del giusto e dell’ingiusto, la confusione fatale del linguaggio che accomuna il virtuale, il nuovo terrorismo e la finanza informatizzata? La depauperazione del territorio, lo smarrimento sociale, la frantumazione delle identità individuali e delle relazioni di gruppo, l’omologazione dei gusti (vedi il il ristorante alla moda, carissimo ed esclusivo, che soppianta un vecchio locale) sono deviazioni imputabili al nemico islamista o al nichilismo economico? Chi è più antiamericano?

“All my lies are always wishes / Tutti i miei desideri sono menzogne”, canta Jeff Tweedy in Ashes of American Flags, meravigliosa canzone contenuta nel quarto album dei Wilco, Yankee Hotel Foxtrot (2002), pietra miliare del gruppo e del rock contemporaneo. É un verso che si adatta bene al romanzo di Jonathan Dee, come si potrebbe adattare altrettanto bene la visione di un film distopico e profetico, l’inquietante Take Shelter di Jeff Nichols (2011). Leggere I provinciali è un’esperienza politica. Ecco la nazione che ha colonizzato il nostro immaginario collettivo, ecco l’America.

I provinciali Book Cover I provinciali
Le strade
Jonathan Dee
Letteratura americana
Fazi Editore
2019
439 p.,