10 poesie di Antonio Bux tratte dal libro inedito “L’ipnosimetro”.
***
Tu che speri un’anima si risvegli
dal lato umano, a tarda ora,
quando sei sola nel mio volto
e l’ora è buia ma ti rischiara,
non è l’anima di chi siamo.
L’anima che si vuole sperare
farsi nulla, avanti come un corpo,
non è l’anima del reale,
se per immaginarsi a specchio
riflette solo male
il volto buono, già svanito.
Così tu ami questo involucro
tradito di ogni giorno,
e la carne che ti piace, o il bacio
vivo nel sonno, che vorrei sereno.
Ma non è che un ricordo
su chi saremo, quando due anime
per fondersi dovranno amare
il sogno andato, d’essere due di uno.
Questo dell’anima si ama,
il suo canto morto, se è vero
che un raggio cavo fa del corpo
chiara la solitudine, forse ameremo
o in quella saremo amati
per chiara immagine che si è
già stati soli, con le furie al collo,
non moriremo amando, l’immagine
nostra mutata se ci amerà
sarà per non sparire.
***
Anche
se mi fugge via l’anima
vedo nelle anime altrui il sogno
d’essere altrove come rinati
di una sola anima e così soli
solamente lasciandosi in pace;
ma
non fugge via la mia anima,
c’è e rimane nelle anime altrui
quando guardo altrove e sento
di me forse un sogno più vivo
ed è l’anima sola che parla.
(Ma dove Dio parla un’anima zitta
parla senza di lui, di dio in verità
e non parole che più definiscano
cosa sia solo amare, o questa pietà
di baci profondi dati a se stessi
dormendo; un animo di baci più bui
con l’animosità di una bestia
spaventa la carne dov’è silenziosa:
questo dio ci collega, in sé ciechi
d’imparare a parlare, e lui dappertutto).
***
Giorni d’acqua, simili a dèi…
Ma cosa viene, da sopra o sotto,
a sognare gli esseri
e poi farli umani, bestie da pascolo,
vivono davvero il loro tempo?
Sembra sia uno specchio
girato contrario, eppure vedono
la forma di sparire
e anche la forma visibile,
con gli stessi occhi che si muta
ogni giorno e non ha fine
ma per poco, la fine che poi diventa
l’inizio di un nuovo giorno
quando
dèi piovono, e sono gocce
aperte al corpo di essere umani;
ma è un pianto, a ciel sereno,
tendere lo sguardo come fosse nuvola
per guardare gli altri, farli animali,
o essere del vento come un canto.
Anni perché fate fiume,
dove e quanto il sogno dura,
se per durare si deve sparire d’acqua
evaporando un solo tempo
perché nel tempo si muore?
(Voci di dèi, una nuvola sopra le teste
disegna le voci tutte le idee
e i corpi quando si amano
così i giorni, i profili già ombra
le vite come ombre equidistanti).
***
Vivono di un solo amore gli alberi.
Affratellati, in nome di un dio cenere
bruciano per risorgere in un filtro d’aria,
così cambiano l’atmosfera, al sogno,
fanno delle teste in cielo e poi il velo
dell’oscuro che noi siamo.
Ma parte di un ossigeno o del veleno
li fa un giro più del mondo quando l’occhio
tenuto zitto interno al verde preme.
Terra che li fortifica soltanto per dolore
ma per dolore ce li avvicina
e fa sembrare puro il loro sonno.
E se proteggono senza cellule la sfera
che in vita gira a perdifiato e ci coltiva
non cadranno nel rovescio, una sola fiamma
di tempo per noi comunemente accesi
il rogo disunito finirebbe.
Ma tagliati, la notte che li assorbe,
nel sogno come sono di parole e buche
un tuffo dall’ombra li allontana
e sembrano perduti tra le foglie ma vivi
senza esistere perché si pianteranno a spora
nel sole da qui anni luce.
Oltretomba di ogni uomo quel seme
d’albero tramonta la sua specie
forse per assurdo sentendosi già umano
ferendo un po’ d’azzurro il clima, le pressioni
autunnali di una vita, parte di ciò che viene.
Ma con amore questa ferita torna
sopra i campi svolge di nero un’abetaia
che pare di essere uniti, spogli
nel tronco ad appassire, e col fiore vano.
Mantra avvolto dentro la culla il legno duro
chiude l’ombelico ma apre l’estinzione.
E a cosa serve dio, se tagliando
in due l’albero sono io?
A cosa serve un io se per chiome
lucenti anni si perdono tra arie, nuove,
e chi non è rimane, e trasparente poi vedrà
lo spazio, il tempo, la sua sparizione?
Mani se corrugano, per il triste
destino che è un dono, simile a radice
sopravvivendo, questo segreto
ciò che gli alberi proteggono, sanno
che di una pasta informe
è benedetta l’energia, e senza meta.
***
Mi
manchi. Dal buio del tuono
vedo costante il tuo riflesso
che si dilegua. Un segno
opposto alla luna
rimbalza sulla terra
e fa rivivere una voce.
Come di fuoco, somiglia
allo stare soli. Questa
tua distanza, ora bianca
quasi opaca mi ricorda
io chi sono. Forse un suono
dolce o la paura
di essere come te
solo del cielo. Ma tu
mi manchi, e così vivo
e vedo alla finestra un cieco
ordine del creato; e mi crea fastidio
sapermi vuoto e nel tuo
stare lontano come la gentaglia
per dirti ancora quanto sei bella
devo scriverlo contrario.
Per questo se mi manchi
vedo incostante
come riflessa la parte
tua che amo; di più non chiedo
alla notte, di sapermi nero
e calmo, già disegno
di una linea che ci unisce.
***
Muore
sempre un destino, e non si placa.
Anche al di là del cielo, poche stelle per poco
attraverso quella freccia si illuminano.
Ma
quando uno muore, qualcosa muove in cielo,
e le stelle morto un uomo si aprono,
fanno un colore della terra, e quell’uomo
la
sua pelle rischiara, un turbine di cieli lo avvera,
e pare una stella incancellabile quel dio
che in poco tempo lo ha disegnato.
Ma
un muro di giorni sarà servito? Uno spazio
per l’anima anche in un buco, un giorno
solo per far di una vita la stella?
Disturbare
le stelle non è poco; morto
il gioco di durare, sarà infinito di luce alle spalle
disegnato un destino da che si nasce
se
un uomo muore non potrà più sparire
la sua traccia già fondo spaziale
dall’altra parte per ognuno sarà porta.
***
Perché
dire un suono. Una figura
non muta al suo risveglio, germina
lontano il geroglifico se parla,
ed è la stessa lingua di vedere
a malapena, sbirciando un prato
l’ombra lunga dove la parola chiama.
Ma un prato, qui, perché dirlo?
Avvolto come in sogno, aprirebbe
al chiaroscuro di ciò che sotto
tende, saprebbe mostrare all’uomo
la curva senza unire, cielo e terra
e una parola così, già sparita.
Perché venire al mondo, allora,
perché parlare e non veder la traccia?
Esseri segreti di un mistero nuovo
avete fatto del tempo suono
senza più parole, dove un uomo ama
anche il suo silenzio; ma dirlo, qui,
a voce strana, sembrerebbe
poco anche per sentire, perché esistere
è la stessa cosa, figura muta umana
il prato continuerebbe a dire.
***
Da che un mondo materiale inventa
il solo modo di meditare, altro
dobbiamo proteggere, il divino medio
col quale provare piacere, così come vuoto
è l’oscuro di un essere speso
in fandonie, solo per scherzo non giurando
che pace e prosperità per i suoi eletti
caproni; ma l’erba mite non si consuma
a primo pelo, ed è inutile il verde
guardare l’atmosfera, se metafisica
o realmente ci vien meno
è il solo vanto da pagare, accecarsi bui
per le strade interrotte dove dio
padre è una pietra, freccia grezza
sulla
strada, e noi la meta.
Da che un mondo diseguale vuole
fare uguali gli esseri, ma non comunicanti,
per un cielo dove dio aspetta lì consuma
con la sua fune di angeli il volere
di un dio diverso, più grande di questo
credo è sbagliare, vedersi fino in fondo
spogliati così su quei prati andremo
per la baldoria di essere pasto, come gloria
eterna, e per sempre ciechi;
l’ultima materia che si impara
nel sovra tempo, è di dover morire
e col suolo falso attorno, creato per bestiame
tenuto dal bestiame forno lento.
Da
che si prega non ritorna l’etimo di dare
questo amore per un disegnare celeste,
che sembra di esistere solo volando
e da lì sopra guardare come scompaiono
cimiteri di case e i misteri della culla
materna è solo la devozione di chi ferito
mostra i propri segni a dio
e dentro di dio si riconsegna vuoto;
più nulla per sentirsi uniti, sereni e prossimi
all’incontro buio, in quella fiamma
di cercare altrove sicuri
l’oscuro solamente e diventarlo.
***
A tu per tu col cielo
che si divinano angeli,
ma di quelli in terra
che in silenzio amano,
perché non si bacia
la forbice, come gabbia
dorata il loro soffrire
anche
per noi?
Sembrano spazi
inventati tra gli esseri
coi loro occhi infiniti
di delirio, e così calmi,
pure quando muoiono;
buio che li adorna
di una stanza immacolata
solo nostra, per noi
che questi portano il nome
di dio nei loro tagli?
Con gli sfregi della terra
imposta, il dado girato
infinito della miseria
è il perdono parallelo, ciò
che sappiamo sbagliato
eppure esistere.
E pure per smuoverci
dal torpore svegliati al buio
di un nuovo giorno, amano
sbagliare in noi e la colpa
che non scontiamo mai;
è la stessa presenza
del vento direbbero,
lo stare insieme al mondo
così uguale, a tu per tu
col volto eroso di quando
si dorme e il sogno dove porta,
al grembo così naturale,
felice…? Sarà il patto di chi
per noi veglia e ci permette
sognare; una comune distanza
coprendo i volti di chi muore
il sangue che le pietre ricordano.
(Di questo silenzio gli angeli
in terra sono radice, da pregare).
***
Sarà che il tempo ha una sola eclissi.
La sua chimera ruba chi non vuole
o spacca in due la propria meta.
Ma porta comunque, nell’unicellulare
bisogno di avere ancora tempo
da essere abbastanza e non sapere
che la luna è un sole morente.
Ma non per dare una fetta di pane
o il sangue frammisto all’olio, calice
di un veleno passato di chiaro in chiaro,
che disegna un cristo malato in cielo.
Così la fretta di una gioia che si ama,
o di un calmo solo come quando si odia
e con furia d’animale, solo questo sa
restare vivo, dopo notti passate a bere,
il granello mite che compone il cranio.
È questo che sarà, ma non per sempre.
Finché si vive e di un servile amore
si ama senza patimento, la giusta pena
è stringersi alla propria specie.
Così ha voluto dio. Così le verità
somigliano a distanze, quando ferme
guardano crescere un’età, e non è mai
quella giusta. Ma è la sola età che c’è,
ed è dalla nostra parte; lei sa come in noi
si compone il sogno, com’è che di noi fa
la spinta umana la sola spinta altrove.
E non muore, è una ruota programmata:
ritorna l’essere a girare, torna nel tempo
e non questo ricordo, ma lui ricorderà.
In copertina Antonio Bux in una foto presa da laboratoripoesia.it