Pochi autori, come Carrère, sanno far scaturire la letteratura dai mille rigagnoli di cui si compone la vita vera. Al punto che, per lui, nessuna definizione sembra più centrata di “inventore di storie reali”. Mescolare i suoi sentimenti, le sue fragilità e paure, con le storie e il racconto delle vite degli altri sembra dunque la più autentica cifra di quello che, a tutti gli effetti, è uno dei più grandi scrittori viventi. Se già con L’avversario e Limonov, ma ancor più con La vita come un romanzo russo, questa sua capacità (che appare quasi come un’impossibilità di procedere diversamente) emergeva con forza, con Vite che non sono la mia il gioco di specchi tra letteratura e vita arriva al suo apice.
Recentemente rimandato in libreria da Adelphi in una nuova e bella traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio, Vite che non sono la mia sono la forma letteraria più alta di cosa sia per Carrère il compito e la responsabilità massima per uno scrittore: mettersi in ascolto e raccontare. Questa volta, mettersi in ascolto e raccontare il dolore. Ma non il proprio. E questo, se apparentemente può sembrare più facile, si dimostra al contrario, materia assai delicata, a rischio retorica o, peggio ancora, edulcorazione, spettacolarizzazione. Furbo gioco di autocompiacimento. In Carrère tutto questo non c’è. E non c’è perché è ben chiara l’onestà (dichiarata per altro nelle stesse pagine) di parlare di sé parlando di altri.
Qui, in questo struggente, lucido e per questo ancor più toccante Vite che non sono la mia, Carrère affronta il dolore, la morte e la malattia. Con la stessa precisione, la stessa compassione, la stessa clemenza emersa nei suoi libri sopracitati. Al punto da indurre il pensiero che Carrère stia scrivendo lo stesso libro, un unico libro in cui parlare di “invenzione letteraria” diventa qualcosa di più simile a una faccenda etica che stilistica.
Qui Carrère è testimone e narratore di due grandi sciagure, separate l’una dall’altra da un arco temporale di pochi mesi: lo tsunami che colpì lo Sri Lanka e la morte per cancro della sorella sella sua compagna. Nel primo caso lo scrittore si è trovato, con la compagna giornalista, a dare supporto e condividere lo strazio di due genitori che, nella tragedia, hanno visto morire la loro figlioletta di pochi anni. Nel secondo, l’uomo Carrère mette in discussione sé stesso ricostruendo la vita della giovane Juliette, morta di cancro a poco più di trent’anni, lasciando allo scrittore Carrère la responsabilità di ascoltare la testimonianza del marito di lei e di un collega che dal cancro era riuscito a guarire.
È proprio questo tenersi la mano dell’uomo Carrère con lo scrittore Carrère a colpire durante la lettura di questo Vite che non sono la mia, in cui una cronaca quasi sobria si mescola con uno degli esempi più alti di compassione. Carrère sa benissimo che il dolore, la malattia e la morte, lui può solo pensarli, non sentirli. Ciò che racconta non lo ha toccato personalmente. Eppure. Eppure, proprio attraverso la scrittura, Carrère mette a nudo sé stesso per ritrovarsi a dare voce a ciò che resta indicibile solo per ciò che letteratura non è.
Forse è proprio questa la forza del libro. Quella straordinaria capacità di raccontare che unisce distanza e partecipazione. C’è come una sorta di complicità tra lo scrittore e, non solo gli uomini e le donne al cui fianco viene a trovarsi in alcuni dei momenti più tragici delle loro vite, ma anco più tra lo scrittore e le storie stesse. Una sorta di inevitabilità, come se Carrère avesse, di diritto, trovato il suo posto proprio lì, proprio lì il suo ruolo. Questo il compito, questa la responsabilità della letteratura dello scrittore francese. Proprio perché anche in queste pagine Carrère è presente come uomo.
Uno scrittore ruba, inevitabilmente, ascolta e ruba, ruba e trasforma la vita degli altri, una vita non sua, per far entrare nell’universale anche la più personale e intima delle esperienze. Ancor più le esperienze di dolore. Solo così riuscendo a raccontare ma non come se guardasse dal buco della serratura quanto, semmai, come un testimone, con tutta la responsabilità che ciò comporta.
Letteratura
Adelphi
2019
261