“[…] soccombismo intellettuale. Chiamo così la sommissione di un individuo di specie intellettuale a un altro individuo della medesima specie […] Questi duetti io non li ho potuti studiare come avrei voluto, ma ho il sospetto che la qualità affermativa, positiva, corposa dell’elemento dominante sia più apparente che reale. Ho notato d’altra parte che gli artisti, i poeti, gli scrittori di specie veramente affermativa, positiva e corposa non esercitano su altri un’attrazione tale da convertirsi in soccombismo. Siamo costretti a presumere che chi fa dei succubi intorno a sè, partecipa egli stesso in qualche misura della natura del succubo. […] L’artista veramente puro è solitario, essenzialmente libero, e così chiuso da rimanere isolato”. Così Alberto Savinio nel souvenir da Parigi del dicembre 1926. Se iniziamo con questo frammento, una “postilla aggiunta” come riportato da lui stesso, è solo perché vi è in questo brano tutta la cifra di questo Souvenirs, da poco mandato in libreria da Adelphi dopo molti anni di assenza e distanza dall’edizione Sellerio.
Parole che ben restituiscono la complessa e eclettica natura del “greco” Andrea Francesco Alberto de Chirico, conosciuto come Alberto Savinio, nome assunto in omaggio a Albert Savin, oscuro e pressochè sconosciuto letterato francese e traduttore di Oscar Wilde. Pittore, scrittore, saggista, musicista, Savinio riversa in questi Souvenir tutta la sua erudita e sarcastica verve impugnando però, quasi a orgogliosa rivendicazione, una scrittura classica, specchio letterario di un mai sopito interesse per il mito greco e, in un certo senso, un mai sopito e vezzoso orgoglio per la sua nascita ellenica.
E già da qui si potrebbe comprendere perché risulti assai interessante leggere questi Souvenirs guardando e ammirando alcune delle sue opere. Classicità e inventiva, lucidità e visionarietà sono le stesse, che si tratti di scrittura o che si tratti di immagini. Cos’altro sono, infatti, questi reportage, questi quadri per parole se non la dimostrazione di come, per Savinio, l’artista debba far scaturire opere di lunga meditazione poi tradotte in un linguaggio che poco importa sia quello della scrittura o della pittura, purché sia, appunto, artistico.
Cosa sono, dunque, questi Souvenirs di cui Eugenia Maria Rossi ci ricostruisce la genesi (e che per tale motivo non staremo a raccontare) e che non senza umorismo sconfinante talvolta nel sarcasmo ci regalano lo sguardo di Savinio su Parigi e la sua cultura, i suoi vizi e virtù? Non sono forse dei quadri di inchiostro con cui lo scrittore-pittore racconta la decadenza di una città, di una società intera, sommamente dei suoi esponenti culturali più grandi o, forse, a suo dire, semplicemente più famosi e celebrati per una fraintesa grandezza?
Non si salva quasi nessuno in questi pezzi in cui l’erudito coltissimo tiene per mano il polemista più sferzante e dissacrante. Non si salva Max Jaboc e nemmeno Renè Claire, non si salva Colette e Jean Cocteau ma nemmeno quei simboli della cultura francese come l’Operà o i Salons d’Automne. Non si salva la pittura francese e nemmeno la gastronomia. Solo Apollinaire che, non a caso, viene definito “il poeta più profondamente classico che onori di sé il primo quarto del nostro secolo” e che si vede qui ricambiato di quella stima con cui lui stesso aveva definito Savinio accostabile ai più grandi geni del Rinascimento.
Eppure. Eppure, dietro, o forse proprio in ragione di questo, sotteso a tanto spirito pungente (è lo stesso Savinio a scriverlo in apertura) vi è non poco pessimismo e amarezza. Amarezza nel constatare come tutto ciò che viene scritto in questi Souvenirs “è scomparso, quasi tutto è stato travolto dalla guerra; e anche questo, oltre al pessimismo, era un motivo per raccogliere questi souvenirs e conservarli. Sentite in queste pagine il fiato della morte? A me pare di sì, è questo è più che giornalismo”
E, non a caso, la prima “vittima” dell’asprezza di Savinio, è proprio il giornalismo parigino i cui protagonisti vengono definiti “fedeli servi dell’Informazione”. “Il giornalista parigino è – o per meglio dire – crede di essere una specie di missionario, una sorta di mago, un distributore di fantasia, un estroso dispensiere di quel tanto di poesia che – dice lui – è la parte più preziosa della vita. E l’illusione di questo poverino è tanto più commovente, in quanto la poesia, lui, non ha mai saputo veramente dove stesse di casa.”
E questo è solo l’inizio di un gustoso quanto graffiante “viaggio” in una città che Savinio deforma per ritrarre ancor più realisticamente, definendola una “dama dal passato brillantissimo” attaccata all’idea-convinzione che fuori dalla sua cinta daziaria gli esseri umani siano ancora “vestiti di rozze pelli”.
Come non leggere, dunque, questi Souvenir, pensando al Savinio pittore, con il suo gusto del fantastico, dell’ibridazione uomo-animale e con la sua capacità di smontare le certezze della borghesia. E, nel caso di Parigi, non solo della borghesia ma, semmai, dell’imborghesimento della cultura, secondo lui.
Reportage, giornalismo
Adelphi
2019
246