Di Giuseppe Manitta
Alberto Pellegatta, “Ipotesi di felicità”, Milano, Mondadori, Lo Specchio, 2017, € 18,00.
Esiste in Ipotesi di felicità di Alberto Pellegatta uno scontro di forze che continuamente prendono forma, cambiano direzione, creano immagini e ossimori. Eppure il riferimento alla muraglia cinese descritta da Kafka, che l’autore fa propria all’inizio del libro a mo’ di premessa, può essere l’indicazione di un’arte che, tra solide fondamenta e piccole proporzioni, diventa un’indagine complessa. Si medita sull’inizio e sulla fine, sui rapporti umani, sulle tensioni, si considera la scrittura come necessità non solo estetica, ma anche biologica, sotterranea: “Invece che lasciare a altri – / invidiosi o stregati – il compito / di scrivere una motivazione / preferisco dirvi io stesso perché / prendere in considerazione il mio lavoro. / Non solo questo travestimento finale. / Magari gialla, come un fiume interrato, ma potabile”.
La metafora dell’interramento è simbolo di questa esplorazione nascosta, complessa, oltre l’apparenza e la superficie. Tale valutazione conduce da un punto di vista stilistico alla caratteristica principale di Ipotesi di felicità, ovvero la capacità di cambiare prospettiva, di piegarsi su se stessa o di estendersi e di condurre altrove rispetto a quanto si potesse ipotizzare. Questo avviene sia attraverso un capovolgimento di prospettiva in campo tematico, sia attraverso la chiosa ad effetto, in alcuni casi anche ironica. La frammentazione dei temi, e alle volte dello stile, diventa indicativa di un modo di vedere il mondo, cioè in Pellegatta avviene qualcosa di raro: l’essere consustanziale alla propria scrittura.
Ogni quadretto, o per lo meno quello che potrebbe sembrare tale, ogni prosa poetica (mi riferisco alla sezione Zoologiche), ogni parte è la rappresentazione di un esserci e di un essere. Questo procedimento, come potrebbe risultare ovvio dal dato stilistico, è chiaro in testi come Orsi, dove una descrizione apparentemente faunistica così si conclude: “Nonostante l’aspetto truce si fa accarezzare facilmente. Pur essendo un solitario, con il sopraggiungere dell’inverno diventa inquieto, perde l’appetito e si mette alla ricerca di una discoteca. Come ripetono le questure, è goloso di miele. Appena si accorge che cominciano a scarseggiare i ragazzi, non esita a intraprendere lunghe migrazioni”. Dalle strutture ora analogiche ora oppositive deriva l’effetto straniante, ma il risultato di lettura del mondo e dell’Io, come si diceva, vuole condurre proprio a questo: “menzogna e metafora usano lo stesso dizionario”, scrive Pellegatta. Chiara, dunque, la congiuntura: “mi guardi come fossi un imbecille / quando nelle stazioni di servizio / maturano i bulbi dei rimorsi. L’aria / cattiva circonda le verande in resina. / Un sorriso su tutti i bicchieri del mondo / ripara i nervi dal tartaro della mia generazione. / Non c’è coincidenza, è finito anche l’ultimo intanto”.
Nell’ultima sezione del libro, che ripropone testi giovanili, si scrive che siamo complessità elementare e l’indole visionaria prosegue anch’essa per legami analogici o per opposizioni. Questo carattere pregnante, indicativo, forte si manifesta in due occorrenze nelle quali si riportano frasi simili, legate alla felicità del titolo: “Per scrivere un numero sufficiente di versi / bisogna essere stati nervosi molti giorni // in ulcerata gioia”; e poi un’altra, tratta dai testi aggiunti in appendice: “…Siamo / spire ulcerate di felicità, siamo il calco / di cose prive di vantaggio”. Ecco l’incendio della poesia.
Collana Lo Specchio
Poesia
Mondadori
2017
120., Brossura