Christian Oster, scrittore francese divenuto noto al grande pubblico con il romanzo Il mio grande appartamento, vincitore del Prix Médicis nel 1999, è da molta parte della critica avvicinato a Queneau e a Jean-Patrick Manchette. In Francia il suo stile e il suo modo di fare letteratura sono stati spesso accostati a quelli del Nouveau Roman per quella che è stata definità una sorta “impassibilità” e di scrittura fredda come la lama di un coltello.
Elementi che caratterizzano (in senso secondo noi positivo) anche questo La vita automatica, recentemente pubblicato da Edizioni Clichy con la traduzione di Tommaso Gurrieri. Jean, attore di serie B, dimentica inavvertitamente di spegnere il fuoco sotto una pentola, episodio da cui prende il via tutta la storia. Sì perché l’incendio non mette a fuoco solo la sua casa ma, ancor più la sua intera vita. Lo vediamo, quasi impassibile e inerme, allontanarsi dalla sua abitazione, con la sola compagnia di una valigia, a piedi e senza avere chiamato soccorsi.
Si recherà a Parigi senza avere ben presente cosa fare e dove alloggiare. Sarà l’incontro con una donna, l’attrice France Riviére a rappresentare una sorta di scissura nella vita di Jean. Che, non solo andrà a vivere a casa sua ma, soprattutto, incontrerà Charles, figlio di France e appena dimesso da un ospedale psichiatrico. Charles diverrà una specie di “sentiero” lungo il quale Jean farà un nuovo percorso, senza soluzione di continuità, dalla vita precedente a quella attuale.
È come se, in questo La vita automatica (e leggendo scopriremo il perché di questo titolo) Jean abbandonasse, in un subitaneo istante, la casa in fiamme e la sua vita. Con la stessa facilità con cui si svolta un angolo, Jean si troverà su un nuovo palcoscenico. Perché proprio questo è l’aspetto che più definisce questa figura letteraria. Jean è un attore ma non solo come professione quanto, ancor più, come uomo.
La sua nuova vita non è, infatti, una vita di riscatto quanto, ancor più, una conferma del suo recitare e guardare al contempo. Jean sembra più trascinato dalle cose che protagonista delle medesime. Ci appare come un uomo che vive rinunciando a vivere, incapace di comprendere (ma anche di chiedersi) chi e cosa sia, verso cosa si stia dirigendo e cosa si sia lasciato alle spalle.
“Oster, massimo narratore della paranoia e dell’inatteso, ci racconta una deriva, una perdita di sé, il mistero inconciliabile di ogni rinuncia alla vita, e soprattutto ci spiega cosa significa vivere dentro l’assenza quando l’assenza diventa perdita, rarefazione, opacità, impedimento a capire chi e cosa siamo diventati”. Queste parole, con cui la bandella di copertina presenta il libro, sono una bella chiave di lettura per un libro in cui uno stile quasi asettico riesce perfettamente a restituirci una specie di disfacimento. Quello di un uomo che perde i punti di riferimento, mettendosi in una bolla esistenziale in cui, forse, anche i concetti etici sfumano. E anche le intenzioni assumono, in fondo, poca importanza.
Meraviglioso e significativo, a tal proposito, il viaggio improvviso, brevissimo e straniante che Jean farà in Giappone con Charles, che nel paese asiatico cerca di fare i conti con una parte del proprio passato. Perché Jean lo segue? Ma ha poi così importanza. In un viaggio tanto lontano nello spazio quanto quasi inesistente nel tempo, Jean non cerca risposte ma, chissà, prendere atto di un’assenza. La sua rispetto a sé stesso.
Un libro freddo dove freddo non è da intendersi come elemento negativo. Anzi. Freddo per la totale mancanza di sentimenti e di sentimentalismo, freddo nelle descrizioni dei personaggi colti nelle azioni e non nei pensieri, freddo come l’improvviso cambio di rotta di una vita da cui Jean tiene accuratamente fuori il passato ma, in fondo, anche il futuro. Come l’ennesimo copione cinematografico, recitato senza aderire alla sceneggiatura. Un film automatico, una vita automatica.
Un libro che colpisce duro, perché lo fa proprio quando arrivi all’ultima pagina e lo chiudi.
Narrativa
Edizioni Clichy
2019
167