Trent’anni dopo la caduta del Muro con Ian McEwan
Di Carmine Maffei
Forse nella primavera del 1989 avvenne qualcosa di simile a ciò che sto per raccontarvi.
E’ molto probabile che nella Berlino Ovest in molti si siano accorti, o non se ne siano affatto accorti, di un uomo, un inglese snello sulla quarantina, con gli occhiali dalla montatura un po’ pesante e il vestiario da professore; con i capelli già radi e un po’ lunghetti che svolazzavano al vento imprevedibile del nord; zaino in spalla e macchina fotografica che penzolava sul petto scarno, tutto intento a curiosare tra un quartiere e l’altro.
Eccolo mentre si aggira nella frequentatissima zona dello Zoo, e nell’adiacente piazza al cui centro la Kaiser Whilelm GedȁchtnisKirche, con la sua mole distrutta, ricorda ancora gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, come una foto scattata in quegli anni e mai sbiadita.
Solo che nei paraggi si notano anche i fast food, i ristoranti di lusso, i negozi di abbigliamento con i loro colori pastello vivace, la vita che scorre lungo il Kurfürstendamm, il lunghissimo viale dove ogni angolo di esso è la parata di una città che pullula di nuovo, di speciale, di schietto.
Quest’uomo inglese sa, in cuor suo, che un romanzo ancor prima di essere scritto, va probabilmente vissuto, e non tanto nel pieno della sua idea, che resta di per sé un’opera di fantasia, ma quanto meno nella maniera più vicina possibile, affinché i suoi lettori possano altresì inglobarsi nel contesto. Quest’uomo, che ricorda tanto un intellettuale, respira intorno a sé qualcosa di nuovo, perché sa, è cosciente che il mondo politico sta cambiando, che la Terra ancora divisa a metà si stia ricongiungendo come dopo un cataclisma preistorico, che tali conseguenze avrebbero portato all’abbattimento delle barriere ed a una miscela di culture aggrappate all’infallibile morsa attrattiva dell’occidentalismo. Eppure pensa, si prende una pausa al vicino Hotel am Zoo, si corica sul letto e rimugina sul finale del suo nuovo libro. Sì, perché la storia è già tutta lì, nella sua testa.
Be’, ha dei dattiloscritti già sparsi nella sua cartelletta, appunti e note di ogni genere, e ha soltanto bisogno del tempo necessario per incollare questo sofisticato puzzle di coraggiose ambizioni letterarie che strizzano fortemente l’occhio alla realtà. Solo che questa sua visita alla città ha smosso del tutto la capacità di sentirsi finalmente nel romanzo: è lui che muove gli stessi passi di Leonard ( non vi avevo ancora detto il nome?), il protagonista, che ripercorre le strade e i quartieri che ora rivivono tempi moderni, molto dissimili al 1955, anno in cui nasce la sua storia.
Giura che mai si era sentito così vicino ad uno dei suoi personaggi. Difatti appena svolta l’angolo di un palazzo a vetri, quasi crede di rivalutare la sua immagine specchiata come in quella di un uomo avanti con gli anni, il Leonard che ritorna nella Berlino che gli aveva cambiato la vita, che lo aveva fatto innamorare e dannare, che lo aveva chiuso tra le mura di una fortezza ora rianimata a nuovo orientamento open minded, ora oltraggiata dai suoi palazzi distrutti, anneriti e pericolanti, la conseguenza della disfatta, la caduta di un regime, la spartizione di un impero claudicante.
Non prende sonno sul letto, il nostro scrittore inglese. Il traffico è scorrevole e il vociare ininterrotto delle persone farebbero quasi da ninnananna al suo fisico provato dalla lunga passeggiata e dal viaggio, eppure si gira e si rigira e non dà tregua alla possibilità che il tutto si concepisca nella fine della sua ultima creatura. Il particolare della sua dimora filologica corre a ritroso,e non per errore, ma per effetto cognitivo, e per un episodio storico in particolare. Il 1987 è l’anno del concerto che si tiene nei pressi della Porta di Brandeburgo e al parco antistante al Reichstag, il palazzo del Parlamento, viene montato un gran bel palco, così nelle sere che si succedono tra il 6 e il 9 giugno di quell’anno, su di esso salgono David Bowie, Eurythmics e Genesis, e suonano sì rivolti al pubblico della Germania dell’Ovest, ma hanno le casse puntate anche dietro lo stage, e questi grossi monitor indirizzano la musica potente verso la barriera che corre su tutto il Muro, e addossati dall’altra parte, nel settore DDR, quello democratico tedesco, ci sono migliaia di giovani che ascoltano le note dell’Occidente, il rock bandito a casa loro. Sono così tanti che i Vopos, gli uomini della polizia di Stato, stentano a tenerli e temono una sommossa, forse addirittura la caduta del Muro.
La musica ha scandagliato le dimostrazioni di protesta già troppo frequenti negli ultimi anni, solo che stavolta ci sono di mezzo le incapacità amministrative che stentano a far credere che una nuova generazione possa forzatamente crescere tra gli ideali di un socialismo che nacque utopico, e tale rimane. Inizia così, in quella calda primavera del 1987, una vera e propria guerriglia tra il pubblico rock e la polizia: è sostanzialmente assurdo che si sarebbero potute perdere le staffe durante un contesto ludico, dove tra l’altro il pubblico dell’Est era stato gentilmente invitato solo all’ascolto, seppur il messaggio era stato recepito piuttosto come una provocazione, da parte delle autorità.
Questo pubblico, apparentemente filo-sovietico, non solo inneggia alla caduta del Muro, ma invoca a squarciagola il nome del presidente dell’URSS Mikhail Gorbachev, che aveva firmato proprio in quel periodo, col presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, la riduzione dell’armamentario nucleare per ambedue le nazioni, e dalla cui figura di accorpamento con un simbolo dell’Occidente era nata una nuova speranza tra gli sguardi di chi era al di là della frontiera.
Lo scrittore, poco prima di entrare nella hall, aveva chiesto informazioni ad un berlinese riguardo ad un’eventuale posizione strategica da dove avrebbe potuto ben vedere il Muro e il lato retrostante, la striscia di terra dei checkpoint…e dei cecchini. Gli era stata raccontata quella storia del concerto di due anni prima ed ad un certo punto quel tedesco gli aveva proprio riferito questo: – chi avrebbe mai detto che il nome di un leader sovietico potesse rappresentare una provocazione nel settore sovietico? E’ incredibile!
Senza poi contare il fatto che nel primo pomeriggio era corso trafelato verso il luogo incriminato non soltanto dalla storia che stava per nascere dalla sua penna, ma da fatti storici che ne autentificavano la veridicità: aveva visitato il posto dove era nata l’ Operazione Oro, e dove per la precisione si era scavato il Tunnel di Berlino.
Tutt’altro rispetto al filo spinato eretto nel 1952 e poi al muro esteso fin dal 1961, anno della sua costruzione. Il Tunnel fu una sorta di anti-Muro, programmato nel 1953 e progettato nel 1955 dall’asse CIA e MI6, durato fino al 1956, anno in cui il segreto venne fuori da un tradimento di un funzionario interno ad esso. Fin dal ’52 di tunnel come sottopassaggi tra Berlino Est e Ovest ne furono scavati a bizzeffe, però dai civili, innanzitutto per permettere ai fuggitivi della DDR di inoltrarsi attraverso di essi e rivedere la luce soltanto nel settore occidentale.
Molti furono i fortunati, ma tanti, tantissimi vennero catturati, e addirittura troppi persero la vita.
Nel caso dell’Operazione Oro invece, i servizi segreti occidentali, uniti nell’impresa e allo stesso tempo in competizione tra di loro, scavarono un tunnel per portare una rete incredibile di materiale elettrico e registratori sotterranei fino al territorio sovietico, sotto il quale avrebbero intercettato le telefonate che avvenivano tra lo Stato e la Stasi (polizia segreta), o semplicemente tra i Vopos e le autorità, per captare eventuali idee di attacco al di là della frontiera amica/nemica, e saper agire nel caso della concretizzazione di un’idea simile.
Lo scrittore inglese occhialuto si era inoltrato tra i campi e i palazzi di nuova costruzione, verso la zona che conosceva come il luogo interessato, e sorvegliato dalle guardie della polizia di frontiera, si era documentato almeno sugli spazi che avrebbero costituito la base della costruzione militare sorta dopo il conflitto mondiale, condivisa dagli americani e dagli inglesi.
I russi, fin da subito, e cioè appena conclusa la capitolazione della Germania nazionalsocialista, si erano tenuti a una distanza fisica, più che diplomatica, con gli alleati della Liberazione; si erano certamente divisi con loro il bottino, quelle quattro mura crollate e abbrustolite che restavano di Berlino, e da quelle basi incenerite ne avevano colto l’occasione per la rinascita di una nuova Europa, e allo stesso tempo dell’espansione dei territori sovietici, questi ultimi però troppo in contrasto con il restante Occidente.
Ma da dove nasceva questa tensione? Avrebbero avuto paura di un’imminente autentificazione delle abitudini viziose dei loro vicini troppo sommariamente libertini?
I servizi segreti statunitensi e inglesi avrebbero dovuto scoprire di più. Leonard, il personaggio chiave nato dalla penna del nostro scrittore, vestiva i panni del traditore. Inglese anch’egli, di venticinque anni, era stato ingaggiato nella base militare come tecnico; aveva preso alloggio al 26 di Platanenallee e aveva svolto un ottimo lavoro; si era arricchito della vicinanza di Glass, americano quest’ultimo, una spia come le altre, ma con il dono di una paternità nei suoi confronti, quasi come a domarlo nelle tentazioni che gli avrebbero fatto aprir bocca nei momenti meno opportuni; si era innamorato di Maria, una donna tedesca di trent’anni bellissima e sensuale, con un passato matrimoniale non proprio roseo, con una nuova voglia matta di ricominciare, e con essa aveva perso la verginità, e in quella Berlino ancora deturpata aveva altresì conquistato la sua identità caratteriale, una certa dose di coraggio e l’incoraggiamento nel saper contrastare situazioni forti.
Il tradimento, infine, era avvenuto, ma per una serie complicata di motivi, e la verità era tutta lì, nel carteggio, chiusa nel cassetto di quella madia di un hotel nei pressi dello Zoo.
C’era soltanto un’ultima cosa da fare ora, nell’anno 1989, non lontano dal fatidico 9 novembre.
Lo scrittore avrebbe immaginato un finale non proprio consono ad una vendetta, bensì alla catapultarsi trent’anni dopo nella stessa città, ma ora in continuo fervento, dove la politica dell’Est scricchiolava nella sua blanda economia che aveva tra i principali assurdi obbiettivi il rafforzamento delle barriere, per non lasciar scappare i propri connazionali e tenerli chiusi in un grosso utopico sistema socialista che aveva già perso pezzi fin dalla Rivoluzione d’Ottobre; e dove uno schieramento occidentale premeva nell’abbattimento delle barriere, a dispetto di tutte le altre che sarebbero sorte ancora negli anni successivi.
Lo scrittore quarantenne, snello e occhialuto si rimise a lavoro quella sera stessa, all’Hotel am Zoo, dopo aver capito che il sonno avrebbe tardato ad arrivare, e ripreso in mano il vecchio faldone, aveva scritto l’ultimo capitolo, dove Leonard percorreva le stesse distanze che aveva intrapreso lui, durante quella giornata infinita, e sembrava quasi di vederlo, il suo personaggio, quest’uomo attempato che ricalcava i percorsi, ora di una città totalmente cambiata, dove il passo veloce aumentava la sensazione di riaffrontare quelle stesse strade col vigore di quando lasciava la base militare, di sera tardi, e passava a prendere Maria per passare le serate a Kreuzberg, nel lontano 1955. Appena conclusa l’ultima frase, aveva pensato di nuovo a quel problema del titolo, The Innocent. Quanto innocente sembrava il suo Leonard? Quali erano le condizioni in cui egli si era ritrovato per superare un ostacolo altrimenti insuperabile, come il Muro, considerare la soluzione di un tradimento? Il romanziere sorrise, e lasciò che fossero i suoi lettori a costituire la giuria più giusta, e si augurò che lo stesso sarebbe valso per la condotta finale del suo libro.
L’indomani, in aereo, in partenza da Tegel, avrebbe riletto tutto il romanzo.
Ora si accorse che il sonno, finalmente, sopraggiungeva ma non perse tempo ad apporvi la propria firma: Ian McEwan.
Nota dell’autore.
The Innocent, romanzo dello scrittore inglese Ian McEwan, esce nel 1989, trent’anni fa, quasi in occasione del periodo storico che di lì a poco sarebbe sopraggiunto. Parla dell’Operazione Oro, il tunnel scavato dai servizi segreti americani ed inglesi per le intercettazioni telefoniche nel settore sovietico della città di Berlino, tra il 1955 ed il 1956. La storia, di per sé autentica, resta però da sottofondo ad una più romanzata, dove la vita del giovane tecnico inglese Leonard, ingaggiato per i lavori nel tunnel, si lega a quella di Maria, tedesca, donna esuberante e desiderosa.
Il libro possiede tutto il fascino della spy story e conserva quel tipico momento drammatico e raccapricciante che identifica i romanzi di McEwan. In Italia il titolo è stato cambiato in Lettera a Berlino, ed è pubblicato da Einaudi.