Di Martino Ciano
Anti-modernità. La rivolta gentile e la soffice delusione. Parte uno
Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Prendo in prestito Eugenio Montale per iniziare questa disquisizione senza pretese, ma che cerca di addentrarsi tra le idee che vengono espresse quotidianamente contro il progresso e la modernità da un certo popolo di lettori e di internauti. Molti chiamano quest’epoca liquida, quando essa si presenta senza contorni, o post-modernità, quando non riusciamo più a dare una temporalità alle nuove scoperte. Nonostante tutto, non offenderemmo nessuno se parlassimo di post-contemporaneità e se identificassimo nel suffisso post una sorta di isola sulla quale il cammino dell’uomo si è paralizzato. Nulla vi è oltre la contemporaneità perché niente sopravvive oltre il presente. La mancanza di una prospettiva futura, oscurata anche dalla negatività delle statistiche, fa pensare a un tempo che ha tirato il freno a mano. La sensazione peggiore, avvertita da tutti, è che esso scorra per inerzia, pur apparendo frenetico e divoratore.
La società degli ossimori. Wittgenstein disse che la filosofia è un continuo chiarire proposizioni, ossia, ha il compito di rendere limpido ogni giudizio espresso. Qualsiasi intuizione è gettata nel Mondo; il nido da cui spicca il volo è avvolto dalle tenebre. È il regno dello Spirito, del subconscio, che produce ciò che la ragione elabora. La logica della sopravvivenza, attraverso cui l’individuo si amalgama alla società, genera il conflitto tra l’intuizione, la quale sottolinea l’errore, e la ragione, che limita l’azione di contrasto e di correzione. Ciò genera la società della contraddizione, dell’aperta guerra gentile, dell’odio di massa, della necessità di aggrapparsi a simboli forti. Così, a un generale bisogno di violenza si affianca la necessità di esternare pietismo e compassione; alla costante propaganda vitalista si pone la morte come scelta individuale. Di fronte a tutto questo ogni proposizione non è più intuitiva, ma deduttiva, essa è già chiara alla fonte per ciò che manifesta, ma non per ciò che rappresenta in sé. Vince in questo modo l’apparenza e scompare l’essenza.
Ogni sistema è costellato da apriorismi, quindi, vero solo nell’apparenza. La società umana sopravvive al non senso del mondo con la costruzione di un sistema. Ogni sistema ha i suoi pilastri, i quali vengono posti aprioristicamente. Valori morali, leggi economiche, norme comportamentali, non sono rintracciabili in natura. La ragione, ossia, il vanto dell’uomo, ha contribuito a creare la sua sopravvivenza, ma come si può notare ogni cosa muta. Le epoche scorrono. Le società sperimentano e modificano. Non esistono sistemi rigidi. Una norma cambia e il senso di giustizia viene relegato al mito. Il mito è sempre stato un collante tra il susseguirsi dei sistemi di una società. In questo modo, la società ha sempre mantenuto un legame con il Sacro. Con la morte e la resurrezione di un dio, è apparso anche un nuovo sistema. Il passato è diventato Tradizione, quindi, monito. Oggi, il legame con il Sacro è stato reciso. Ogni sistema è fragile. La Tradizione è scomparsa perché non esistono più dei. Il collante contemporaneo è il meccanicismo scientifico e la morale individuale della libertà e della buona volontà. Se l’unità di misura del mondo è proprio l’uomo, allora, quali sono le prospettive?
Per la stesura di questa prima parte ho preso in considerazione filosofi di diversa estrazione, ossia, Marcuse, Adorno, Evola, Guénon, Heidegger, Jünger.
L’immagine di copertina è Vincolo d’unione, di M.C. Escher