Arbre Magique
Di Daniela Ginex
Potevano essere le tre e mezza quattro del mattino – a quell’ora, regolarmente, nel cortile risuonava il rombo della moto di Cristian facc’i’poccu che tornava dal suo giro di spaccio di cocaina nei dintorni della piazza Teatro Massimo – quando Tonino fu risvegliato da un insolito, insistente e doloroso crampo al basso ventre.
Si alzò cercando di fare meno rumore possibile – il padrone di casa, Li Zhang detto Tuccio, non ammetteva inquinamento sonoro che non fosse quello suo e della sua popolosa famiglia. Casa: se così si può definire un basso quattro metri per quattro, con cucina-bagno infestata da blatte e un unico infisso tenuto insieme da insistite strisce di nastro da imballaggio.
Si abbassò precipitosamente le mutande a costine bianche, o che per lo meno una volta erano state bianche, le quali, insieme a una canottiera tanto larga da essere pressoché inutile, costituiva il suo completo da notte, e si sedette sulla tazza del cesso con cautela, giusto per evitare che il medesimo si staccasse dalla sua precaria allocazione (cosa che era infaustamente avvenuta altre volte, con grande costernazione di Tuccio).
Riconoscendo una cogente spinta alla defecazione, Tonino la assecondò con docilità. Era stato il paninazzo di Jonathan con funghi e maionese o la birra consumata nella mattina con Mamadou, il suo – come dire – collega di lavoro? All’angolo con corso Sicilia, proprio sotto Cavallotto, il caldo estivo era opprimente, e una birretta di mezza mattina aiutava a trascinare la pesante giornata. Mamadou almeno faceva qualche soldo con i Rayban tarocchi, Tonino stentava a smerciare i suoi Arbre magique. La gente moderna, che non curava gli effluvi profumati del suo veicolo.
Ormai paonazzo in viso, Tonino non trovò altro conforto al disagio che osservarsi i piedi, ma né le ispessite unghie giallastre, né le fantasiose callosità gli furono di grande aiuto. Eccole lì, maledette emorroidi, che ci si mettevano anche loro. Cercò di graduare la spinta con delicatezza, mettendo in azione il torchio addominale e rilasciando con grazia la muscolatura perineale. L’operazione, accompagnata da un sommesso, costante vocalizzo, durò alcuni minuti, mentre il sudore cominciava a incollargli al viso i capelli. Quando finalmente il fecaloma, o quello che Tonino presumeva tale dovesse essere, fu espulso dal suo corpo, egli crollò il capo, esausto, scosso da un lieve tremito. Riavutosi, andò a verificare l’entità del prodotto del suo sforzo allargando le magrissime gambe pelose, ma quello che vedeva al di là dei testicoli penzolanti non rispondeva all’immagine consueta del prodotto quotidiano del ponzamento. Si alzò così in piedi, incespicando nelle mutande che avevano ormai perso l’elasticità necessaria per stare al loro posto, e si curvò sulla tazza.
Aiutandosi con uno scovolino già segnato dalle tracce delle precedenti esperienze fecali, estrasse delicatamente un pacchetto di plastica grigia, che afferrò con due dita e depositò sul pavimento. Che cosa stava succedendo?, era impazzito, o aveva qualche brutta malattia? Il cuore cominciò a battergli all’impazzata. Come gli era finito nella pancia quel pacchetto? Lo avevano forse drogato? Mamadou gli aveva messo qualcosa nella birra mentre lui era distratto?
Finalmente si risolse a lacerare l’involucro. Avvolto da una consistente imbottitura di plastica a bolle, un orologio di acciaio nuovo fiammante. Tonino lo soppesò, constatandone il funzionamento, poi osservò attentamente il quadrante, nel quale riconobbe la famosa corona e la scritta, Rolex datejust.
Tre ore più tardi, nel suo letto, Tonino non aveva cambiato la sua posizione, supina, né l’oggetto del suo sguardo, un unico punto del soffitto esattamente sopra di lui.
Le prime luci del giorno portarono nella sua mente provata risoluzioni più pratiche. Per quanto ci avesse riflettuto, non c’era spiegazione che avesse un minimo di plausibilità. Comunque quel coso fosse finito dentro di lui, ormai c’era, probabilmente aveva un suo valore e la cosa più assennata era sfruttarne le potenzialità nel migliore dei modi.
Raggiunse la sua postazione come al solito a piedi, pannello con gli Arbre magique sottobraccio e Rolex in tasca, stretto prudenzialmente nella mano destra. Aveva deciso di sottoporlo a Mamadou, che era la persona di cui diffidava di meno, al momento, e che almeno nel campo delle contraffazioni aveva una sua rispettabile competenza.
- ‘Mbare, ma questo è originale. Se è fagghiu è fatto troppo bene, a mmia mi pari originali. Ma dove l’hai rubato?
Ecco, quella era un’altra questione, spiegare al mondo come ne era entrato in possesso. Per un attimo rifletté che nessuno l’avrebbe messo al polso, se avesse saputo che il prezioso oggetto aveva dimorato per un periodo nel suo intestino. In ogni caso, chi ci avrebbe creduto?
Pensò così di proporne l’acquisto a Tuccio, dato che era in ritardo con la pigione. In un primo tempo il severo padrone di casa provò a cacciarlo via in malo modo, promettendogli di sfrattarlo il giorno stesso se non si fosse presentato con i suoi soldi. Poi, quando Tonino estrasse l’orologio, aggrottò le sopracciglia per meglio metterlo a fuoco, e la sorpresa gli schiuse le labbra carnose, che scoprirono gli incisivi alquanto sporgenti.
- Dove l’hai preso questo?
Tonino non aveva preparato una risposta plausibile, o meglio, ci aveva provato, ma il suo ingegno non gli era stato di grande aiuto. Ma non fu necessario rispondere, perché Tuccio lo incalzò.
- Ti do trecento euro, e per questo mese la casa è pagata. Se me ne porti altri te ne do quattrocento.
Tonino cercò di dominare le sue palpitazioni, che arrivarono al parossismo quando vide quei biglietti da venti euro che si accumulavano sul tavolo. Contemporaneamente, mentre la trattativa veniva portata a termine, nella stanza entravano e uscivano i membri della famiglia di Tuccio, interagendo fra di loro e con il capo famiglia in un cinese urlato come se si trovassero a metri di distanza. Un bambino di apparente età di sei anni si avvicinò troppo e fu cacciato sbrigativamente con un manrovescio.
Una volta a casa, Tonino contò e ricontò quella somma, incredulo che ci potessero essere tanti soldi tutti insieme. Quindi comprò svariate leccornie, delle sigarette e della birra, e restò sorpreso nel constatare che gli restavano ancora un sacco di soldi.
Quattrocento euro. E se gliene avesse portati dieci? Quattromila euro. Non riusciva neanche a visualizzarli, tanti soldi. Il sole era ormai tramontato, lui aveva mangiato a crepapelle e se ne stava intontito, seduto sul suo letto, illuminato dal cono di luce che la tv accesa proiettava verso di lui. L’indomani poteva mangiare ancora tutta quella roba, anzi tutta la settimana, di più!, tutto il mese. E magari poteva comprarsi un paio di pantaloni, una maglietta nuova. Poteva anche andare da una di quelle ragazze che all’imbrunire cominciavano a stare lì vicino a lui e Mamadou, compulsando il cellulare e mettendo in mostra le loro grazie bardate da abiti succinti e tacchi vertiginosi.
La notte arrivò. Tonino stentò ad addormentarsi, assopendosi leggermente e svegliandosi di botto al primo crampo. La sequenza fu uguale alla prima, solo che adesso l’aspettativa lo aiutò a sopportare il dolore del parto. Questa volta il Rolex era femminile e dorato.
L’indomani però non volle portarlo a Tuccio. Qualcosa gli diceva che il cinese lo stava fregando. Sì, ma come fare a conoscerne il reale valore? In una gioielleria non l’avrebbero fatto entrare, o forse avrebbero chiamato la polizia, perfino. Quando ebbe accumulato sette Rolex, si ricordò di Pippo, un suo compagno di cella – ai tempi della sua ultima detenzione – che gli raccontava che, una volta uscito, avrebbe lavorato nella bottega compro oro di suo cognato, su a Gravina. Forse lui avrebbe potuto aiutarlo, e in ogni caso il luogo era sufficientemente lontano dai posti da lui battuti quotidianamente. Non si fidava: già il giorno dopo Mamadou gli aveva chiesto che cosa avesse fatto con il Rolex.
- L’ho venduto a Tuccio. Era tarocco, mi ha dato duecento euro.
- Minchia ‘mbare. Ma sei un collione. Ti sei fatto fotere i soldi.
A dodici Rolex, Tonino si risolse a fare la spedizione a Gravina. Li nascose in posti diversi della casa – due sotto la traballante tazza del cesso, tre nello sciacquone, quattro nella spazzatura, e così via – e prese l’autobus alla volta della meta stabilita. Ne aveva portato solo due.
Pippo lo riconobbe a fatica. Con la scusa di offrirgli un caffè, si allontanò dalla bottega, e dallo sguardo sospettoso e preoccupato del cognato. Si sedettero al tavolino, e Tonino tirò fuori con cautela il suo tesoro.
Pippo osservò attentamente, poi guardò perplesso Tonino. Non gli chiese dove li avesse presi.
- Portamene dieci domani, ti do cinquemila euro. In contanti.
Tonino fissò il suo interlocutore, le orecchie piene di un ronzio selvaggio. Si sentì forte, si sentì invincibile.
- Diecimila. Te ne porto dodici, mi dai diecimila. Sono originali, non sono finti.
Pippo lo fissò, gli occhi ridotti a due fessure taglienti. La mano stringeva il bracciolo della poltrona, mentre, messo di profilo rispetto a Tonino, guardava verso la parete. Poi si voltò verso di lui con un sorriso impercettibile.
- Va bene. Diecimila. Domani a mezzogiorno.
- Domani alle otto.
Non voleva insospettire Mamadou con assenze inusuali.
La sera preparò tutto. Mise i Rolex in un piccolo zaino logoro, che avrebbe indossato al contrario, in modo da controllarlo continuamente; e sopra un giubbotto, e pazienza il caldo. Quando fu tutto pronto, stappò una bottiglia di vino bianco che aveva comprato per festeggiare in solitaria l’affare e se la scolò in poco più di dieci minuti. L’alcol lo aiutò a piombare in un sonno profondo, che per l’eccitazione avrebbe tardato a coglierlo.
La coscienza affiorò tardivamente e in modo sconnesso, alle prime luci dell’alba. Un trepestìo, un dolore in varie parti del corpo, un rumore insopportabile di sedie e oggetti che cadevano per terra, il sapore ferroso e caldo del sangue in bocca, le luci di fuori che filtravano attraverso la porta-finestra, aperta. Infine, uno stordimento che gli impedì di muoversi per parecchio tempo.
Quando si risvegliò nel suo stesso vomito, Tonino faticò a mettere a fuoco i contorni della sua casa. La porta era ancora aperta, il silenzio era totale, a parte un sottile lamento, il suo. Dolorante, andò verso il bagno, dove poté constatare, osservandosi allo specchio rotto, che aveva un occhio pesto e svariate contusioni in viso e nel corpo.
Cercò di lavarsi con le mani tremanti, quindi si sedette. Quando fu abbastanza pronto a sopportare il colpo, guardò sotto il letto con la testa che gli ronzava. Ovviamente lo zaino non c’era.
Si buttò disteso. Bastardi. Pippo l’aveva fregato. Era stato un coglione, si era fidato di quel delinquente. Fu addirittura tentato di andare dal cognato a denunciarlo. Si immaginò mentre lo accusava con veemenza di non avere mai lasciato il crimine.
Era stato un coglione, ma lui di quei Rolex ne poteva cacare quanti voleva. Che importava? Sarebbe stato più prudente, li avrebbe venduti lontano, uno alla volta. Avrebbe cambiato casa, magari. Pian piano sarebbe diventato ricco, forte, e nessuno lo avrebbe trattato come l’ultimo verme dell’universo.
Si assopì, consolato dal suo stesso ottimismo, per essere risvegliato, come al solito da alcune mattine, dal crampo addominale. Rincuorato, andò subito a riprendere la vita imprenditoriale così malamente interrotta.
Si sedette e mise in pratica la sequenza di azioni che ormai dominava con un certo stile. Anzi, ormai non sentiva quasi più dolore, come se defecasse normalmente.
L’operazione fu insolitamente veloce. Al solito, Tonino immerse le mani nella tazza per afferrare il prezioso pacchetto.
Qualcosa non tornava, però. Innanzitutto il fetore, che era insopportabile. Poi la mano, che non incontrava la resistenza della cara plastica, ma anzi affondava in una materia soffice e calda.
Accese la luce, cadde in ginocchio con un urlo.
Niente orologi.
Nella tazza, una montagna di merda.